Noterelle a margine di una vacanza Africana – 2
Nelle mie lunghe e ormai ventennali frequentazioni di Malindi, in Kenya, ho spesso avuto modo di osservare il funzionamento della pubblica amministrazione in quel paese africano, definito da quella generica allocuzione che lo vuole appartenente al “terzo mondo”, laddove noi dovremmo appartenere al “primo”.
Il mio amico Mohamed è un corpulento e mite islamico, che gestisce una fiorente attività di taxi e transfer con la gentilezza e il garbo di un vecchio britannico, non ostante il suo eterno caffettano e lo zucchetto sul cranio pelato. Mohamed usa da sempre come suo “ufficio” una stazione di servizio nel cuore della vecchia Malindi, dove un tempo si trovava anche un telefono pubblico. Lui siede da sempre su una sedia a fianco della cabina telefonica e se si ha bisogno di lui basta passare alla stazione di servizio o fare il numero della cabina. Quello fino a qualche tempo fa era il numero che Mohamed dava come riferimento. “Questo, Mister Garahni (così arabizza il mio nome) è il numero del mio ufficio…” mi disse quando ci conoscemmo tanti anni fa prima che arrivassero anche lì i cellulari e sparissero i telefoni pubblici. Adesso Mohamed sta ancora seduto a fianco della cabina nella stazione di servizio, ma ha tre cellulari che alterna sul lavoro, riuscendo spesso a parlare con tutti e tre contemporaneamente persino mentre guida i suoi taxi.
Ultimamente a Malindi sono comparsi dei parcheggiatori in cerata gialla che, dietro regolare ricevuta ti chiedono 45 scellini per il parcheggio, anche se il parcheggio è solo un bordo terroso di una strada scalcinata. Una mattina, mi raccontava Mohamed, sono arrivati anche alla stazione di servizio, in un angolo della quale lui parcheggia la sua auto, e gli hanno intimato di pagare il parcheggio. Lui si è rifiutato, adducendo il fatto inequivocabile che quello non era suolo pubblico, ma apparteneva al proprietario della pompa di benzina. Il posteggiatore allora gli ha intimato di pagare, altrimenti lo avrebbe mandato “in corte”, cioè davanti al giudice del tribunale dove si dibattono tutte le infrazioni alla legge, comprese le multe stradali. Mohamed si è detto pronto al confronto, e il giorno dopo, sottolineo “il giorno dopo”, si è presentato in corte dove ha spiegato al giudice le sue ragioni. Il giudice, ascoltate brevemente le parti, ha sospeso il giudizio dichiarando che voleva vedere di persona i luoghi per accertare le responsabilità, e ha mandato tutti a casa. Dopo due giorni, e sottolineo “due giorni”, il giudice si è recato alla stazione di servizio, ha constatato la situazione, ha verificato la proprietà, e ha di conseguenza assolto Mohamed dall’onere di pagare il parcheggio. Contestualmente Mohamed ha accusato il parcheggiatore di avergli creato un danno, avendogli ingiustamente fatto perdere due mattinate di lavoro, e il giudice ha prontamente riconosciuto la bontà delle sue motivazioni, ingiungendo al parcheggiatore di ripagare il disturbo con un migliaio di scellini, pagati pronta cassa.
Mentre questa estate Mohamed mi raccontava la sua tribolazione, durante il lungo viaggio in auto verso l’aeroporto di Mombasa, e alternando alle due orecchie i suoi tre cellulari, mi veniva fatto di pensare a quanto spesso noi ci lamentiamo del nostro sistema giudiziario, definendolo da “terzo mondo”. Magari fosse almeno paragonabile in velocità e praticità a quello che ho sentito raccontare da un cittadino del “terzo mondo”.
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