#Nonleggeteilibri – Una donna e il suo presente, all’ombra della Rivoluzione iraniana del 1979
«Non leggete i libri fateveli raccontare» (Luciano Bianciardi)
(Serena Grizi) Un popolo di roccia e vento (titolo originale: Det Var Vi) di Golnaz Hashemzadeh Bonde, Feltrinelli ed. 2018 traduzione di Anna Grazia Calabrese € 9,50 isbn 9788807894930 e-book € 6,99. Disponibile al prestito inter bibliotecario SBCR www.consorziosbcr.net
Attraverso la penna dell’autrice Golnaz Hashemzadeh Bonde, classe 1983, è la generazione precedente che parla, quella che dalle università lottò per destituire lo scià Palevi, troppo influenzato dall’Occidente, e consegnò il paese alla Repubblica islamica, di fatto un regime teocratico, pur se nella convinzione generale che occorresse ristabilire costumi e regole sociali più consone ad un paese di fede islamica. Nella storia della protagonista Nahid tutto la tradisce: prima la rivoluzione, ben presto repressa nel sangue dai successori dello scià che fecero arrestare e torturare i rivoluzionari in cerca della confessione dei nomi dei loro compagni. Poi il marito, con cui all’università aveva condiviso questa fede politica, che la picchia selvaggiamente; il corpo, perché il tumore le ricorda che molto tempo è passato sulla sua forza e testardaggine, quelle che le hanno permesso di lasciare il paese natale e rifugiarsi lontano anche dal suo matrimonio fallito. Apprezza la bellezza del nuovo paese nel quale vive, la Svezia, resta sempre incredula davanti ai suoi paesaggi d’acqua e di verde, ma non riesce a dimenticare la propria storia costellata di inganni, difficili da capire in gioventù (la realtà si presentava ammantata delle migliori possibilità per poi rivelarsi altro); di dolore per l’abbandono forzoso della propria madre, ferita mai rimarginata, specialmente ora che si scopre malata. Ad attenderla c’è un finale che lei sente potrà dare senso alla sua storia e speranza alla sua famiglia, oltre il secondo tempo della sua vita, quello che le ha presentato il conto di tutto, ma per raggiungerlo dovrà, con un atto di forza, decidere di curarsi, di non lasciarsi morire, di rivendicare, quasi, la propria appartenenza al suo ‘popolo di roccia e vento’ diviso tra tradizioni millenarie e storiche instabilità politiche…
Il romanzo, tradotto in molte lingue, è in realtà frammentato tra brevissimi capitoli i quali hanno il pregio di leggersi con leggerezza e di essere facilmente ricordati, ma non riesce, non può, coinvolgere più di tanto il lettore come avrebbe potuto fare un impianto, anche solo di riflessioni, più complesso. Chi anagraficamente non può ricordare neppure gli echi di quella rivoluzione e delle cronache incalzanti del ritorno di Khomeynī dall’esilio all’estero e la costituzione del suo regime teocratico, non riesce ad entrare nel clima di quegli anni. Così il lettore si ritrova come la protagonista: al margine di una vita non del tutto vissuta, forse mai compresa del tutto per certi aspetti. Il libro della Bonde, a questo punto, si pone più come testimonianza d’una esperienza femminile ai margini della storia. Dal dolore, però, il messaggio di speranza e di necessità di lottare per il cambiamento non tarda ad arrivare.
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