#Nonleggeteilibri – Ritmi di veglia. Scritture altre nei tempi che cambiano…
«Non leggete i libri fateveli raccontare» (Luciano Bianciardi)
(Serena Grizi) Ritmi di veglia di Raffaella D’Elia, Exòrma 2019 € 13,00 isbn 9788898848836 e-book NO. NON Disponibile al prestito inter bibliotecario SBCR www.consorziosbcr.net
La lettura della D’Elia, Ritmi di veglia, prefato da Emanuele Trevi, non lascia indenni, non solo e non tanto per l’importanza dei modelli letterari che la stessa potrebbe aver considerato, né per lo sfondo colto che traluce dalle sue righe. Non lascia indenni né in positivo né in negativo, anche se forse quest’aspetto si tende a tralasciarlo, perché davvero l’autrice ‘inventa’ una macchina narrativa ‘nuova’: nuova perché scarsamente frequentata dai più; com’è vero che la sua scrittura impone al lettore il ritmo di lettura delle pagine, che può essere un ritmo veloce da lettura ‘normale’, quando pare narrare eventi in fila piana. O un ritmo lento quando struggente, o tedioso, se nelle locuzioni intende sperperare quel che di logico ci sarebbe nei pensieri (ma che nel pensato può davvero sortire così come lei lo scrive nero su bianco): salti, posticipi, frammentazioni fotografiche, l’occhio che corre su altro e ci si ritrova in un caleidoscopio di lettere e immagini scomposto come uno specchio frantumato in schegge e tirato poi in un angolo (e provatevi a ricomporlo, lo specchio, così conciato). In poco meno di cento pagine si narra senza narrare dell’infanzia e adolescenza di Ida passata tra scrittura «sempre a scrive stai» – le dice il fratello – (come ogni scrittore sa, pensando a ciò che dicono i familiari stufi e increduli) e prove ‘d’assestamento’ nel mondo adulto per non sentirsi in colpa/per non farsi incolpare d’essere come si è. Oppure si narra delle prove della giovane danzatrice Ida, alacre frequentatrice di palestre esistenti ed esistenziali e d’un altro giovane danzatore/scrittore (qual è il suo nome?) che conosce di più le attese fuori della sala che la sala stessa ma forse è l’estensione al maschile d’una scrittrice. Nella sala si appalesa la ripetizione quasi dolorosa del gesto per diventare ballerina classica/persona: si sublima in estensione agli arti del pensiero o della fatica dei muscoli alla mente in un continuo senza soluzione. Il libro, scorse le prime righe, verrebbe da chiuderlo (e il titolo non sarebbe in questa rubrica perché i titoli letti e trovati pessimi qui non appaiono). Eppure dentro il suo meccanismo c’è un fascino che chiede all’occhio di essere assecondato: è come trovarsi di fronte a quegli automi antichi e fascinosi, costruiti con pezzi d’altro che poi, una volta assemblati, ripetevano un movimento grazioso, oppure orrorifico, poiché sembravano agire di vita propria e non per l’umana meccanica impostagli. Provare per credere come in questa realistica descrizione d’una vetrata: «Una stanza preparatoria, di attesa. Nel lato nord, una vetrata ampia, luminosa. Opaca fino alle prime ore del pomeriggio, scintillava al passaggio di ogni macchina fino a notte. Fino a quando i fari incrociavano sul vetro i riflessi dei corpi in movimento, dagli impercettibili bagliori imperlati di sudore». Passo nel quale la presenza umana s’appalesa di riflesso facendoci gustare l’autonomia di ciò che è immoto e ‘che è’ anche quando noi non ci siamo. E poi: «La nostra piccola dose di inferno la calziamo ogni mattina, ma l’alba la confonde con il nascere del giorno e il giorno contribuisce a mescolarla alle nostre attività». Questo vagare nell’esistenza narrando qualcosa senza narrarlo, lavora nella mente a scarti e ciò che rimane a galleggiare davanti all’occhio, nella testa, si capisce già che lo rileggeremo e forse lo citeremo fra le nostre cose più belle. Più astruse. Più belle…. in compagnia di futuri davvero complessi.
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