#Nonleggeteilibri – Riparare i viventi
“Non leggete i libri fateveli raccontare” (Luciano Bianciardi)
Riparare i viventi (titolo originale: Réparer Les Vivants) di Maylis de Kerangal traduzione di Maria Baiocchi con Alessia Piovanello – Feltrinelli ed. 2015 € 16 e-book disponibile € 5,99 isbn 9788807031281
All’inizio, la storia dei tre ragazzi che se ne vanno a fare surf di mattina prestissimo su un tratto di costa gelido della Normandia, vi sembrerà un incipit da corso di scrittura creativa: infarcito di aggettivi e immagini metaforiche com’è (e se non amate questo tipo di scrittura per alcuni versi proseguirà – anche – così e allora meglio abbandonare il tutto). Al ritorno dall’impresa sportiva, a causa d’un brutto incidente d’auto, uno dei tre ragazzi entrerà in coma. Il libro comincia quando si palesa il dramma familiare e ospedaliero che c’è dietro una morte cerebrale, quando i medici devono comunicare alla famiglia il delicato passaggio: il cuore del ragazzo batte ancora collegato ad una macchina ed è ancora possibile espiantare tessuti e organi e mandare in giro sulle gambe di altre persone le parti viventi dello sfortunato Simon Limbres. Esteticamente e moralmente la faccenda è tutt’altro che esplorata, o meglio, ne sono stati esplorati più spesso i risvolti sentimentali e meno tutti gli elementi che portano altre persone, professionalità, storie molto diverse fra loro, ad occuparsi di ‘riparare i viventi’, quello che sembra quasi il verso d’una preghiera: «ti prego di riparare i viventi». Qui l’impresa della de Kerangal può apparire anche più ardua. Raccontare ad un mondo che potrebbe anche non essere solo l’Occidente, eppure con l’aria di raccontare precisamente a se stessi, la nostra culla di civiltà straziata e straniata da mille violenze, bassezze, orfana delle religioni. Da quale specificità tecnica e scientifica, ma soprattutto da quale etica profonda si può essere mossi, qui ed ora, nei confronti degli altri e come questa cultura si esplichi meno nel detto e nella preghiera (che pure una gran fetta di mondo richiama ad alta voce) e molto di più in consuetudini che appaiono quasi meccaniche ma che sono un po’ (tanto) la base solida, si direbbe, di una società civile. Una società civile diventata afona, avara di parole, anomica. Come dire che se si è orfani d’un qualche ente superiore, o si crede di esserlo, ciò non toglie che ci si debba auto motivare per fare bene ciò che ci spetta nell’esistenza. Resterà ‘bene’ anche se non lo si sa sempre dire (ad un certo punto il dottor Thomas Rémige ‘canta’ la sua pena mentre ricompone il corpo ormai ‘svuotato’ del ragazzo) e anche se sarebbe meglio ricominciare a raccontarlo. Questo bene, queste persone, non sono descritti in qualche loro esistere astratto ma emergono ‘fisicamente’ dal contorno stringente di oggetti e abitudini e descrizioni fitte e precise che l’autrice utilizza per descrivere quel che è vivere oggi in Europa, non solo in Francia, in un catalogo riconoscibile da chiunque e perciò facile da comprendere e condividere. Pur non sapendolo, o volendolo ignorare forzatamente a causa di egocentrismi sparsi, noi facciamo sistema e lo facciamo anche accanto a chi soffre e scompare, può sopravvivere sotto altre forme e poi…ci manca. Il libro non è un inno ai trapianti di qualche umanità fortunata che usa deceduti quali pezzi di ricambio a proprio vantaggio ma ha il sapore d’una preghiera laica collettiva che ancora non sembra retorico pronunciare, un inno alla vita quando questa si ama, con tutti i buoni (a volte modesti) motivi per viverla. Belli e profondamente commoventi i racconti sul canto dei cardellini di Algeri, la dinamica delle onde dell’oceano, la ricerca dell’amore in una metropoli, ricerca ardua e opaca ma non meno avvincente; sulle geometrie perfette d’un gruppo di professionisti attorno ai corpi affidati loro … Un libro così potente, termine abusato si sa, ma tanto da strappare lacrime dalla pagina, e questo è meno comune. Curioso che la de Kerangal ‘affidi’ il trapianto dell’organo della vita per eccellenza nell’immaginario umano, il cuore, ad un interessante, ruvido quanto basta, italiano di nome Virgilio e che le speranze arrivino ancora da questo mare, come nel bellissimo film di Aki Kaurismäki, Miracolo a Le Havre (2011). (Serena Grizi)
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