#Nonleggeteilibri – La vita davanti a sé (senza saperlo…)
La vita davanti a sé (titolo originale: Le vie devant soi) di Romain Gary, Neri Pozza, 2016, traduzione di Giovanni Bogliolo – € 9,90 isbn 9788854508347 e-book € 8,99 – disponibile al prestito inter bibliotecario SBCR www.consorziosbcr.net
Nel soliloquio-mondo di Momò, ragazzino arabo allevato da una prostituta in pensione divenuta casa-famiglia di figli di ex colleghe in quel di Belleville, ci si entra in punta di piedi presto accolti dalla innocente ironia del ragazzino e credendo di sentir raccontare la sua storia. Ma quel che Gary trasferisce nei pensieri di Momò è il ritratto spassionato della vecchiaia solitaria e malata di Madame Rosa, la sua povertà senza miseria e la innocenza che ha conservato nel travestirsi da squillo per sviare persino nello specchio lo sguardo da quel che è diventata: un’anziana molto malata che presto comincerà ad avere significative assenze e a cui piano piano verranno tolti i bambini in affido, che aiuta a sopravvivere e con i quali sopravvive, eccetto Momò. Per quel ragazzo e pochi altri sente che è valsa la pena vivere: si sente realizzata e madre anche di chi, spiandola fin nell’intimo della coscienza come Momò, potrà dirsi figlio e padre fin nella decrepitezza. Con la condanna d’una società distante dagli anziani creduti inutili, Gary qui pare aver lasciato il suo testamento di uomo e scrittore di successo (diversi suoi libri divennero importanti film ed egli stesso si cimentò nella regia) e poi plateale suicida. A causa della vecchiaia. Per il pensiero di non poterla sopportare. Momò guarda Madame Rosa con immensa tenerezza: è una mamma mondo, quella che tiene insieme un vicinato eterogeneo e solingo a sua volta, è il piatto, pieno o vuoto, e impara profondamente come la società non meriti la vecchiaia di nessuno. Tornano ancora cari i versi di Yeats: «That is no country for old men» e, a dirla tutta, scorrendo le pagine pare che verso La vità davanti a sé abbiano un debito scrittori come il Grossman di Vedi alla voce: amore (oppure è solo una coincidenza che anche qui ci si trovino felini, ebrei spaventati e una cantina). Oltre la vita complicata e dura del quartiere, Madame Rosa è una cava di trovate comiche, meglio del Josè Arcadio Buendia di Cent’anni di solitudine: tiene un ritratto di Hitler sotto il letto, lei che ancora soffre la brutta paura che si prese nel ’42 a causa del drammatico rastrellamento del Velodromo d’Inverno, e lo guarda in quelle giornate in cui ha bisogno di ricordarsi che c’è di peggio e Momò gli presenta lo stesso ritratto, facendola trasalire violentemente, quando Madame si astrae a causa della sua malattia. Madame Rosa è anche la garanzia d’una umanità che non conosce razze nell’esilarante scena in cui ad un genitore di fede musulmana tornato a prendere il figlio adolescente lasciato lì a due anni, vuole ‘rifilare’ Moise, uno dei suoi figli preferiti educato all’ebraismo, e il malcapitato padre muore d’un colpo apoplettico. La vera forza del libro, però, è lo stile spiazzante, umoristico e ‘informato dei fatti’ quel tanto che basta: qui c’è un giovane Holden per niente borghese alle prese con la multi-razzialità e multi-sessualità di Belleville, senza tempo per la noia e con una forte ineluttabilità nello sguardo mediata solo dall’ignoranza che, nel patto col lettore, lo scrittore attribuisce al suo adolescente Virgilio ‘della vecchiezza’. Con questo libro Gary, sotto lo pseudonimo di Émile Ajar, si seppe dopo la sua tragica morte, vinse il Premio Goncourt. Ufficialmente, fino a quel momento e per rafforzare la finzione, il volto di Ajar fu quello di un giovane parente di Gary, Paul Pavlovitch: i critici s’azzuffarono sui due autori, in realtà solo uno, quello che ormai credevano troppo vecchio per poter scrivere qualcosa di buono. Ancora oggi le facce degli autori fanno discutere, come la questione sul vero volto di Elena Ferrante. (Serena Grizi)
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