#Nonleggeteilibri – “God Save the Queer”, proposte perché la fede si rinnovi dal linguaggio all’inclusività….
«Non leggete i libri fateveli raccontare» (Luciano Bianciardi)
(Serena Grizi) God Save the Queer – Catechismo femminista di Michela Murgia, Einaudi ed. 2022 – € 14,50 isbn 9788806259105, e-book 8,99, audiolibro 12,99. Disponibile al prestito inter bibliotecario SBCR https://sbcr.comperio.it/
Come scrive nella postfazione di God Save the Queer la filosofa e teologa Marinella Perroni, Michela «Murgia è una credente che interpella i credenti»; non rivolgendosi né ai non credenti né agli atei, senza però, scriviamo noi, escludere che qualche domanda se la pongano anche coloro che credono di non credere e gli agnostici. Le domande possono essere quelle su una tradizione cattolica in Italia, arrivata fino ai giorni nostri quasi sempre uguale a se stessa: a volte con sacramenti svuotati del loro vero significato, a sentir parlare proprio chi prende parte agli stessi, o con una ‘istituzione’ chiesa luogo di misoginia imperante. Murgia, con l’intelligenza che le si conosce, nel saggio racconta il suo interrogarsi fin da piccola prima sui luoghi comuni: chiesa condotta da uomini nella quale le donne fanno i mestieri più umili, per esempio, fino a giungere all’argomento che le sta davvero a cuore; la salvezza delle anime queer (nello specifico, crediamo, non solo e non tanto nell’accezione di ‘eccentriche’ o ‘insolite’ ma di chi non si dice né eterosessuale né cisgender). Le sue domande possono essere, in parte, quelle di molti: cresciuti/e a ridosso della chiesa, esperienza non difficile in Italia sia ieri che oggi, per le frequentazioni di catechismi e parrocchie legati ai sopra citati sacramenti che punteggiano la vita d’ogni cristiano battezzato, a sua insaputa, ma comunque tale. Il sentimento di tenerezza che spesso nasceva in noialtri ragazzini/e, non diverso forse da quello che può nascere oggi in qualunque ragazzino/a verso la storia di Cristo che come storia, da dove la si guardi, è davvero bella, anche con tutti i Vangeli apocrifi a seguire (e gli interessanti prodotti culturali che ne sono derivati fra libri, cinema, teatro); questa storia verso la quale si sviluppava tenerezza ed empatia, sia verso il Gesù Bambino che verso il Cristo del deserto e poi dell’Orto degli Ulivi, non combaciava quasi mai con un catechismo all’altezza, ma piuttosto con una sequela di domandine e risposte spesso lontane dall’immaginario di ognuno. E che dire di un’arte che ha spesso introiettato i voleri sociali, l’organizzazione patriarcale, facendo del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e di questo soprattutto come sottolinea l’autrice, tre corpi estranei tra loro con l’ultimo più estraneo (incomprensibile) di tutti? Per le bambine, soprattutto, riflette il denso saggio, difficile sentirsi coinvolte da quel mondo tutto al maschile pur essendo invitate a credere, pur osservando una delle tante meravigliose opere della nostra tradizione pittorica nelle quali la Trinità avrebbe dovuto comunicare qualcosa di meno ‘distante’. L’autrice indica la sua personale strada verso una fede che oltre ad essere tale non sia un insulto per la ragione e, soprattutto, sia inclusiva: in apertura un quadro illustra il vecchio concetto di Trinità e subito dopo appare la tavola con la Trinità del pittore russo Andrej Rublëv (1422) a cui l’autrice guardò con ammirazione capendo che era possibile pensarsi inclusi/e nella chiesa cattolica e pensare, finalmente con speranza, ad un possibile processo di svecchiamento culturale e di linguaggio che prima o poi dovrà pur condurre ad una cristianità più partecipata da tutti e tutte allo stesso modo. Ovvio che non occorre essere queer per farsi tali domande che sintetizzano con intelligenza l’esigenza di una educazione cattolica ‘ormai’ da cristiani adulti, non più ispirata alle paure e alle limitazioni culturali, alcune delle quali apparterrebbero ancora ad una idea di chiesa dei primi cristiani. Sulla possibilità di una costruzione social della società odierna più appagante perché in fondo capace di essere più vicina alla verità dell’individuo nella sua molteplicità colpisce, fra le tante, la locuzione: «In termini di cambiamento può quindi essere molto più autentico il botta e risposta di messaggi con un amico o la discussione che segui su una piattaforma digitale piuttosto che la frase fatta che ti ripete tua madre in carne e ossa mentre a tavola ti porge le patate al forno», vera, secondo l’autrice, solamente perché non c’è nessuno che possa davvero giudicare quale sia l’esperienza più autentica fra queste ed altre elencate nel ragionamento, che procede con passo speculativo e sembra senza difetti, sul quale occorrerebbe spendere più tempo perché fra i meno convincenti del saggio se consideriamo che la libertà o la spregiudicatezza di alcune interazioni social è data proprio dall’essere interlocutori non in presenza. E se dal ragionamento sprigiona di nuovo l’urgenza di ritrovarsi tutti umani, nell’accettazione l’uno dell’altro, come un ‘quarto spettatore’ dinanzi alla Trinità rublëviana sentita come inclusiva e più reale per questa nostra realtà, non passa inudito uno scricchiolare come d’unghia su una parete di specchi di chi non si rassegna ad appartenere ad una comunità credente che è meno inclusiva di quel che potrebbe/dovrebbe essere e dalla quale, evidentemente, però, non ci si vuole allontanare. Ma è chiaro che c’è un ‘laboratorio’ di idee che lavora alacremente al ‘cambiamento’ e questa è anche una parte del fascino di questo saggio che racconta con capacità divulgativa un pezzetto di questo ‘laboratorio’ anche ai ‘non addetti ai lavori’.
Immagine web (copertina di Mauro Biani)
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