#Nonleggeteilibri – “Auschwitz, città tranquilla” Primo Levi racconta
«Non leggete i libri fateveli raccontare» (Luciano Bianciardi)
(Serena Grizi) Auschwitz, città tranquilla. Dieci racconti di Primo Levi a cura di Fabio Levi e Domenico Scarpa Einaudi, 2021 € 12,00 isbn 9788806249236 e-book € 7,99. Disponibile al prestito inter bibliotecario SBCR www.consorziosbcr.net
In dieci racconti e due liriche con la curatela di Fabio Levi e Domenico Scarpa (Centro Internazionale di Studi Primo Levi), si riattualizza il talento di scrittore e il messaggio universalmente umano di Primo Levi, uno dei primi testimoni del lager nazista che ebbe il coraggio, e la fiducia, di mettere le sue storie tragiche ‘nelle mani’ del pubblico dei lettori. In questa edizione si ricorda quanto gli fosse caro Dante Alighieri: presente la lirica Schiera bruna (prende il titolo dalla similitudine delle anime in fila come formiche nel canto XXVI del Purgatorio) o il titolo del racconto Capaneo (dal canto XIV dell’Inferno per il tono d’invettiva dello stesso), ed altre citazioni ancora. Il richiamo non torna per caso nell’importante anniversario della morte del Poeta, ma riallaccia un dialogo che Levi promosse già da Se questo è un uomo. Torna ancora in queste pagine una scrittura chirurgica unita ad un’acutezza estrema e ad una memoria del lager che lo scrittore definisce «di una precisione patologica» dalle quali il ricordo, anche il più innocente o ‘tecnico’, legato alla professione, cesellato con la parola, così come nasce e cresce una bolla di vetro per mano di maestri vetrai, si disintegra nell’indignazione mai sopita in Levi per le sorti subite nei campi di concentramento e sterminio da intere generazioni: l’annullamento dell’uomo sull’uomo promosso dai nazisti ma permesso dagli ‘uomini grigi’. Gli straordinari Cerio e Vanadio già ne Il sistema periodico: «Nel mondo reale gli armati esistono, costruiscono Auschwitz, e gli onesti ed inermi spianano loro la strada; perciò di Auschwitz deve rispondere ogni tedesco, anzi, ogni uomo, e dopo Auschwitz non è più lecito essere inermi». Angelica Farfalla, Versamina, La bella addormentata nel frigo, già nelle Storie naturali con lo pseudonimo di D. Malabaila, vanno richiamando alla memoria come anche la sua narrazione più o meno lontana dal campo di concentramento, per argomento e per epoca, veda e supponga un mondo non meno terribile di quello che ha manifestato tanta intenzione mortifera. Quanto Levi fosse capace di riconoscere che i torti o la giustizia non li fabbrica né la razza né la religione come ne Il re dei Giudei, già in Lilít e altri racconti, e che non crede che l’ultima grave ingiustizia terrena sia stata l’Olocausto degli ebrei come nel Canto dei morti invano del 1985. Il Canto riletto oggi metterebbe a tacere le disonorevoli voci, davvero trasversali ad ogni credo politico, secondo cui gli ebrei di Israele non hanno imparato nulla dalla ‘lezione’ storica perché divenuti oppressori del popolo palestinese; le stesse voci che minimizzerebbero l’Olocausto degli ebrei perché molti altri orrori seguirono storicamente quell’avvenimento. Levi scrisse qui quella che richiama alla memoria l’altra epigrafe, simile nell’animo, quella con cui il fondatore del Partito d’Azione Pietro Calamandrei rispose all’ex generale Kesselring, stragista delle Fosse Ardeatine che, mai pentitosi, chiedeva per sé un monumento da parte degli italiani. Chiaro come il sole che Levi scrisse per avvertire che non esistono scale d’importanza nelle guerre fratricide, né pogrom in primo piano più di altri e che le anime di quelli che non c’erano più e i loro discendenti, sarebbero rimasti a guardia di chi non intende capire o intende leggere la storia secondo semplificazioni di comodo; ovvio che il monito potrà essere letto da ogni popolo qualora dimenticasse le proprie sofferenze infliggendole ad altri. Il racconto Forza maggiore, uscito sul quotidiano La Stampa il 27 luglio 1986 storia di un’oppressione fisica (un uomo mite che s’accinge ad andare ad un appuntamento incontra in un vicolo stretto un ragazzone che lo atterrerà per passargli letteralmente sopra con i piedi mentre chi passa nel vicolo né subisce la stessa sorte né s’oppone alla violenza), poi raccolto in Racconti e saggi, resta un punto alto della sua letteratura ma anche culmine dell’espressione d’un dolore davvero indicibile e che tale pare rimanere a decenni di distanza anche per l’impossibilità di essere compreso fino in fondo e di dimenticare l’indifferenza altrui: «M. si rialzò, si rimise gli occhiali e si rassettò gli abiti. Fece un rapido inventario: c’erano vantaggi secondari, quelli che il calpestato ricava dalla sua condizione? Compassione, simpatia, maggiore attenzione, minore responsabilità? No, perché M. viveva solo. Non ce n’erano, né ce ne sarebbero stati; o se sì, minimi. Il duello non aveva corrisposto ai suoi modelli: era stato squilibrato, sleale, sporco, e lo aveva sporcato. I modelli, anche i più violenti, sono cavallereschi, la vita non lo è. Si avviò al suo appuntamento, sapendo che non sarebbe stato mai più l’uomo di prima.»
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