Non lasciamo solo il popolo tibetano!
Nel 1950 la Repubblica Popolare Cinese invase il Tibet. L’invasione e l’occupazione del Tibet costituirono un inequivocabile atto di aggressione e violazione della legge internazionale. La sistematica politica di sinizzazione e sottomissione del popolo tibetano segnò l’inizio della repressione cinese cui si contrappose l’insorgere della resistenza popolare. Il 10 marzo 1959 il risentimento dei tibetani sfociò in un’aperta rivolta nazionale. L’Esercito di Liberazione Popolare stroncò l’insurrezione con estrema brutalità uccidendo, tra marzo e ottobre di quell’anno, nel solo Tibet centrale, più di 87.000 civili. Il Dalai Lama, seguito da circa 100.000 tibetani, fu costretto a fuggire dal Tibet e chiese asilo politico in India dove fu costituito un governo tibetano in esilio fondato su principi democratici.
Nel 1959, 1961 e 1965, le Nazioni Unite approvarono tre risoluzioni a favore del Tibet in cui si esprimeva preoccupazione circa la violazione dei diritti umani e si chiedeva «la cessazione di tutto ciò che priva il popolo tibetano dei suoi fondamentali diritti umani e delle libertà, incluso il diritto all’autodeterminazione.» A partire dal 1986, numerose risoluzioni del Congresso degli Stati Uniti, del Parlamento Europeo e di molti parlamenti nazionali hanno deplorato la situazione esistente in Tibet e all’interno della stessa Cina ed esortato il governo cinese al rispetto dei diritti umani e delle libertà democratiche. Malgrado gli incessanti appelli della comunità internazionale il diritto del popolo tibetano alla libertà di parola è sistematicamente violato; migliaia di tibetani sono tutt’ora imprigionati, torturati, e condannati senza processo (e le carceri cinesi sono disumane). Le donne tibetane sono costrette a sterilizzazione obbligatoria, eppure nel 1980 la Cina ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite per l’eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione contro le donne; i monaci e le monache devono frequentare corsi di ‘rieducazione’, perché devono rinnegare il Dalai Lama e dichiarare obbedienza al partito comunista. Anzi, secondo la più recente legge, tutti i monasteri devono essere controllati direttamente da funzionari governativi che perciò stazionano permanentemente al loro interno. Secondo il rapporto annuale di Human Rights Watch «l’80% della popolazione rurale dell’altopiano è stata forzatamente trasferita, senza previa consultazione e senza adeguata compensazione.» «Lo standard di vita dei pastori, allontanati dalle loro tradizionali occupazioni, è in rapido declino e la loro sopravvivenza dipende sempre più dai sussidi governativi.» Il rapporto denuncia la massiccia presenza delle forze di sicurezza che impediscono ai giornalisti e ai visitatori stranieri il libero accesso alle aree tibetane e sottolinea inoltre la totale mancanza di libertà di espressione, associazione e pratica della religione del popolo tibetano nonché la sua impossibilità di intervenire nella scelta dei propri leader politici. «Il Partito controlla ogni aspetto della vita sociale e delle istituzioni, compreso il sistema giudiziale, e i tibetani sospettati di avanzare critiche nei confronti delle direttive politiche, religiose, culturali o economiche del governo sono sistematicamente perseguiti e accusati di separatismo.» Tre anni fa avevo adottato a distanza un giovanissimo monaco della regione autonoma (!) tibetana; trascorso un anno, in quella regione scoppiarono diversi disordini e il governo attuò una tale repressione che l’abate del monastero di mio figlio pregò la onlus di collegamento di troncare ogni rapporto per la sicurezza dei monaci. Da allora non ho saputo più nulla di Gandrub e degli altri monaci. Ogni anno numerose famiglie tibetane sono costrette a mandare i propri figli in esilio per assicurare loro libertà ed educazione scolastica, come denunciano diverse organizzazioni umanitarie che tra mille difficoltà cercano di portare avanti progetti che aiutino questo popolo sia in Tibet, sia nelle nazioni che hanno accolto i profughi, l’India tra tutti. A dispetto della severa repressione e delle libertà negate, in Tibet, la resistenza continua, ma in maniera ancora più drammatica che in passato: sono 106 le vittime dal 2008 ad oggi, e la maggior parte sono giovanissimi, che si sono date fuoco. Un dramma nel dramma, perché, come scrive V. Olita «nella delicata, poco conosciuta e dimenticata situazione del popolo tibetano, si innesta, infatti, l’atroce conteggio delle immolazioni che si susseguono nell’indifferenza che, con grande responsabilità dei mezzi d’informazione, nel nostro Paese sfocia in una sorta di rimozione collettiva del problema Tibet.» Eppure l’auto-determinazione dei popoli e le libertà individuali dovrebbero essere tra le priorità di una società che si vanta di avere una visione liberale del mondo. L’occidente deve scuotersi e mobilitarsi per denunciare e proporre iniziative concrete per la salvaguardia dei Diritti Umani. I diritti individuali sono repressi sistematicamente in più di un quarto dei Paesi membri dell’ONU: a centinaia di milioni di uomini è negato il diritto di libertà personale, di parola, di pensiero, di religione e di autodeterminazione. Il Parlamento Europeo potrebbe, per esempio, istituire la Giornata Europea per la Libertà delle Minoranze e dei Popoli Oppressi e contemporaneamente fare pressione politica sul governo cinese. Del resto le proteste e i boicottaggi internazionali mettono in moto dei cambiamenti; è stato così negli anni ’70/’80 per i bambini che cucivano i palloni di cuoio per farci giocare o tessevano i tappeti per abbellire le nostre case; è così oggi per gli adulti che costruiscono i ‘tablet’ e gli ‘smartform’ per noi occidentali, che rivendicano orari e posti di lavoro più umani e salari migliori. I 106 tibetani che si sono dati fuoco hanno sì protestato contro il regime cinese, ma anche contro la comunità internazionale che li sta lasciando soli. E la loro è una protesta estrema, terribile, di chi ormai non ha più un sogno per il futuro. Imponendo la difesa dei Diritti Umani come priorità internazionale, potremo rispondere positivamente al Dalai Lama che va interrogandosi sull’efficacia della lotta del suo popolo.
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