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Non è possibile omologare nessuna violenza

Giugno 04
02:00 2008

Quando c’è di mezzo il problema sicurezza non è lecito pensare di arginare lo sconcerto per fatti incresciosi con le ideologie ed i proclami, c’è il rischio di inficiare anche le cose buone già fatte, gli intendimenti, le speranze, su cui poggia il futuro carico di attese. Da qualche tempo l’impressione è che alla realtà che viviamo sovrapponiamo la trama di un film, che però non è mai stato girato, dunque si tratta di sequenze prodotte dalla nostra fantasia o disabitudine a vedere le cose per quello che sono. I nostri confini sono valicati da colonne di umanità allo sbando, i reati connessi aumentano, ma qualcuno insiste a non vedere, piuttosto di ammettere l’inammissibilità di una ospitalità perennemente in apnea, in asfissia, ci si arrabatta in pericolosi trapezismi solidaristici. Nella scuola l’eroe da imitare non è quel ragazzo silenzioso dell’ultimo banco, quello che scrive come il mio autore preferito, piuttosto è quell’altro, che mette sotto il più debole con l’aiuto degli altri, con metodo e ruolo da lager o da gulag gli bruciano i capelli e le speranze.
Il gruppo è in marcia, batte i piedi, è diventato assai più importante della famiglia, è famelico nel ricercare gli obiettivi, nell’individuare e spezzare la fragilità del coetaneo di turno. Non è così semplice omologare una violenza, errata e inaccettabile, ma addirittura svestita di una qualunque “utilità”, quindi riottosa a qualsivoglia ridefinizione sociale. Sulla criminalità di piccolo cabotaggio, delle grandi organizzazioni, si conoscono anse e gli anfratti di quelle scelte dirompenti, i pochi si nascondono dietro i tanti per fare denaro, per delirio di onnipotenza,per un’inconsapevole forma di autopunizione. Ma di fronte a queste forme di incomprensibile distorsione umana, perché di vera e propria erosione intimistica si tratta, non è con la sola punizione esemplare, con la semplicizzazione della risposta penale, che si ripiana la follia di una fisicità comportamentale divenuta requisito primario per apparire, per essere riconosciuti all’esterno della propria carta di identità.
Tolleranza zero, risposte dure, tutti pronti alla guerra di liberazione del terzo millennio, forse è questa la ricetta giusta, ma quale metodo educativo è approntato per riguadagnare il terreno perduto della buona vita, al disagio relazionale che investe l’intera società? Gli adulti ben hanno da preoccuparsi, consegnando rese e tradimenti ai propri figli, quale stile di vita hanno trasmesso per fronteggiare la deriva del tutto e subito, la divinazione del mito della forza, della dialettica che mette in fila le parole ma non aiuta a distinguerne il senso? Come per il detenuto che non lavora su di sé, ma persiste a giustificare e condannare gli altri delle proprie disfatte, anche per queste generazioni di guerrieri in erba, vi sarà la disperazione ad attenderli al varco, e finché si insisterà a raccontarne gli episodi in maniera ossessiva, da casa del “grande fratello”, il delirio continuerà a investire i più giovani, quelli innamorati della messaggeria istantanea schizoide, dalla “roba” che fa bene, dalle nocche infrante.

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