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Nicholas Georgescu-Roegen padre della decrescita

Marzo 12
02:00 2007

Il dibattito attuale sui temi dello sviluppo, della crescita e della decrescita richiamano esplicitamente alla figura ed all’opera di Nicholas Georgescu-Roegen, il cui pensiero resta quanto mai attuale e capace di suscitare vivaci discussioni e polemiche. Se qualcuno provasse a spiegare la teoria di Georgescu-Roegen ad un politico di professione, impegnato nella vita amministrativa, questi, verosimilmente, manifesterebbe qualche difficoltà di comprensione o, più probabilmente, tenderebbe a fare buon viso a cattivo gioco. Ciò non dovrebbe destare molto stupore se si considera che il pensiero del nostro autore si presenta veramente singolare, rivoluzionario ed alternativo nella sua essenza, tanto da assumere un carattere per certi versi provocatorio e “sovversivo”. In effetti il pensiero di Georgescu-Roegen è tale da mettere in crisi i paradigmi usuali dell’economia e della politica, fondati sull’idolatria della crescita economica e materiale, quale obiettivo prioritario da perseguire sempre e comunque da ogni politica che possa dirsi sensata agli occhi dell’opinione pubblica. Certamente il nostro autore non poté vincere il premio Nobel, non perché le sue idee mancassero di valore, ma perché fuoriuscivano radicalmente dagli schemi tradizionali dell’ortodossia accademica. Nato nel 1906 a Costanza, in Romania, da famiglia di condizioni modeste, Nicholas mostrò presto un’indole geniale pubblicando significativi lavori scientifici. Grazie ad alcune borse di studio, all’estero ebbe la fortuna di incontrare notevoli personalità del mondo della cultura, quali: Karl Pearson, Schumpeter, Leontief, Sweezy, Kaldor, Milton Friedman, Irving Fisher, Oskar Lange ecc. Tornato in Romania, egli pensò di mettere a disposizione la sua esperienza per il bene del suo paese e qui svolse la sua attività di ricerca, in particolare sull’economia agraria, ricoprendo anche incarichi di importanza politica ed istituzionale, fino al 1949, quando si trasferì definitivamente negli USA, dove divenne professore all’università di Nashville rimanendovi fino alla morte, il 30 ottobre del 1994. Tra il1970 ed il ’74, il nostro autore elaborò i suoi scritti principali, quali: “The entropy law and the economic process” Harvard University Press, 1971. L’intuizione fondamentale alla base della sua teoria sta nella distinzione tra il concetto di ciclo chiuso e quello di ciclo aperto. L’ecologia dimostra chiaramente come la vita sulla terra si mantiene essenzialmente grazie all’esistenza di cicli chiusi: il flusso della materia e dell’energia passa dagli organismi vegetali (produttori) agli organismi animali (consumatori) ed, infine, arriva ai microrganismi (decompositori), i quali riciclano completamente le scorie e ne rendono disponibili gli elementi per la ripetizione del ciclo della vita. Pertanto in natura la qualità e quantità della materia e dell’energia rimane inalterata senza che nulla vada sprecato o perduto. Al contrario l’attività umana consiste prevalentemente in una trasformazione che si esplica soprattutto attraverso cicli aperti. Per soddisfare i crescenti bisogni umani, infatti, l’economia produce merci e beni attraverso lo sfruttamento delle risorse naturali le quali, in tal modo, vengono inesorabilmente impoverite, inquinando acqua, aria, mare e suolo e peggiorandone la qualità in modo irreversibile, compromettendone la futura utilizzabilità. Si osservi, ad esempio, che è praticamente impossibile, partendo da un oggetto di plastica, tornare ad ottenere il petrolio e le altre materie prime con cui l’oggetto stesso è stato prodotto. Analogamente è piuttosto difficile che l’acqua prelevata da una fonte sotterranea, una volta utilizzata, possa andare a reintegrare la fonte stessa di provenienza, ed ammesso pure che accadesse, certo quell’acqua non avrebbe più le caratteristiche iniziali. Come si vede, dunque, l’attività dell’uomo consiste proprio in processi di trasformazione delle risorse naturali di tipo prevalentemente irreversibile in contrasto con quanto avviene in natura, dove la vita prosegue proprio grazie a cicli chiusi e reversibili. Pertanto la materia nel suo passaggio dalla natura ai processi umani subisce una degradazione irreversibile, nel senso che perde le sue proprietà iniziali e non è più riutilizzabile con le stesse modalità. Certamente si potrebbe pensare al riciclaggio dei rifiuti per rallentare questa tendenza ma, come osserva il nostro autore, non dobbiamo illuderci, perché ogni processo di riciclo è in grado di recuperare solo una parte della materia presente nei rifiuti. Da qui deriva il principio di degradazione della materia, in un certo senso analogo al principio fisico di degradazione dell’energia noto come legge dell’entropia. È evidente come esista un nesso fondamentale tra l’economia da un lato, e le scienze fisiche dall’altro, e come per comprendere la realtà occorra integrare discipline diverse tra loro. Da qui si vede la necessità di una nuova scienza multidisciplinare: la “bioeconomia”. Ma il punto fondamentale del messaggio di Georgescu-Roegen è che lo sviluppo ottenuto attraverso l’abbondanza di merci può essere utile a noi oggi ma, a lungo andare, si ripercuoterà contro le generazioni future. D’altra parte il modo di produzione capitalistico, per la sua stessa essenza liberale, non sembra conciliabile con tali principi. Il pensiero di Georgescu-Roegen sembrerebbe inesorabilmente pessimista e rimandare ad una visione escatologica drammatica per l’umanità. In realtà il nostro autore ritiene che occorra subordinare le leggi dell’economia a quelle dei processi fisici e biologici e che la chiave della salvezza starebbe proprio in una forma alternativa di sviluppo, uno sviluppo liberato dai miti del consumo materiale. Da qui scaturisce il concetto di “decrescita”, intesa come processo di liberazione dell’uomo dall’ossessione per l’accumulazione di beni materiali tipica della civiltà industriale e conseguenza del sistema capitalistico. Certamente l’opera di Georgescu-Roegen aprì la strada alle ricerche sulla sostenibilità grazie anche all’opera coeva “I limiti dello sviluppo” del Club di Roma, il quale paventava i pericoli di uno sfruttamento indiscriminato della natura. La prima crisi energetica del 1973 fornì poi un impulso decisivo all’avvento dell’ecologia ed iniziò a diffondersi l’idea circa la necessità di un cambiamento radicale del modello economico dominante. La critica a Georgescu-Roegen ha messo in evidenza come, dopo la fase di industrializzazione, nelle economie avanzate la società appare sempre più dematerializzata, come dimostra l’avvento dell’economia legata all’informazione tanto che si potrebbe ipotizzare uno sviluppo che richieda una quantità di energia e materia decrescente. Ma anche questa per Georgescu-Roegen è una mera illusione poiché non si può sfuggire alla irreversibilità nell’impoverimento delle risorse naturali. Certamente la tecnologia può rallentare questa tendenza, ma fino a quando? Fino a quando potrà durare la società opulenta di cui parla J. K. Galbraith nel suo libro “La società opulenta”? (Milano, edizioni Comunità)
Questo è l’interrogativo che da tempo ha iniziato a farsi strada presso ambienti accademici, scientifici e non solo… facendo vacillare certezze di sempre.

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