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“Nella tempesta. Legami” Di Franca Mannu al Salone di Torino

Maggio 17
18:31 2023

Nella tempesta. Legami, esordio letterario di Franca Mannu, Armando editore. Senza alcun dubbio, i contenuti, firmati dallo scrittore e critico letterario Guglielmo Colombero, permettono di avvicinarsi con maggiore consapevolezza ai vari temi che scandiscono le pagine del testo che verrà presentato il prossimo 20 maggio al Salone internazionale del libro di Torino, alle 12 presso lo stand della Fuis (F28-G27, Padiglione 2). Nella sapiente disamina di Colombero vengono messi in evidenza diverse particolarità che connaturano la storia tormentata della protagonista, Susanna, che, suo malgrado, si trova impegolata in giri criminali e in vicende affettive dominate sempre da peculiari meccanismi psicologici. Non solo: il lettore incontrerà attente disamine inerenti ai cospicui rimandi – sia quelli volutamente richiamati dall’autrice nelle vicende e nelle caratterizzazioni delle figure che dominano le descrizioni, sia quelli sottaciuti – e ai debiti letterari che marcano la scrittura di Mannu particolarizzando in modo indissolubile la trama del romanzo.

 

Dalla Prefazione al testo di Guglielmo Colombero

(direfarescrivere, anno XIX, n. 208, maggio 2023)

 

«Passione e violenza oltre ogni limite: Prefazione a Nella tempesta. Legami

Un noir introspettivo e allucinatorio, ecco come si potrebbe definire Nella tempesta di Franca Mannu, primo volume di un’avvincente trilogia: una fiaba per adulti con soprassalti thriller, permeata di sfumature sadomasochiste miste a pulsioni erotiche irrefrenabili, dove l’autrice sa padroneggiare la materia con raffinata eleganza (per fortuna siamo ben distanti da balordaggini come Cinquanta sfumature di grigio di E. L. James, ma piuttosto nei paraggi di La cosa in La cosa e altri racconti di Alberto Moravia con qualche condimento piccante carpito da Storia dell’occhio di Georges Bataille e da Slittamenti progressivi del piacere di Alain Robbe-Grillet), senza mai scivolare nel gratuito o nell’insostenibile. L’incipit, ambientato nel gelo invernale di San Pietroburgo, è incalzante, con uno stile che riecheggia le gangster story di Mickey Spillane: un “contratto marsigliese” che il glaciale e spavaldo Mikhail, ambizioso parvenu affamato di denaro e di sesso, intende utilizzare come rampa di lancio per la sua scalata fino ai vertici della mafia russa. In parallelo la visuale slitta su Susanna, diciannovenne reduce da traumi passati che non riesce a cancellare: dopo qualche esitazione, accetta di esibire il suo corpo nudo (dotato di due seni generosi, che il brutale padrone del locale definisce con l’appellativo sprezzante di “zucche”, e che lei stessa stigmatizza come: “La mia maledetta quarta di seno.” in un nightclub affollato di avventori bavosi. Entrambi i protagonisti, quindi, mettono la loro carne in vendita per restare a galla, per sopravvivere in una soffocante giungla d’asfalto costellata di trappole mortali, di sevizie, di umiliazioni fisiche e morali. Il monolocale in cui si stabilisce Susanna, vera e propria prigione labirintica alla Piranesi in miniatura, è descritto con una minimalista e inquietante “poetica degli oggetti”: lo sguardo della giovane lo percorre in una specie di silenziosa vertigine, un caos calmo e pervaso da un sottile disagio claustrofobico, amplificato dalla presenza di uno specchio. Una tana esistenziale, insomma, in cui Susanna tenta di estraniarsi da un passato che la opprime e rincorre. Se ha visto il capolavoro Muriel, il tempo di un ritorno di Alain Resnais, Mannu ne ha sicuramente assimilato la lezione espressiva; in caso contrario è riuscita a citarlo a occhi chiusi. Il primo contatto fra Mikhail e Susanna nel nightclub è intensamente epidermico, ma lui lo interrompe proprio quando sta per toccare il culmine, mortificando la femminilità di lei che ormai fermentava incontrollata: “Alza la mano facendo scivolare due dita sulla mia tempia, sposta una ciocca di capelli dietro l’orecchio poi scende sul collo e sulla scapola, arrivando a toccare il seno. Percepisce il brivido che ha innescato, non posso evitare di tremare.” La considerazione che Mikhail nutre verso il sesso femminile emerge dai suoi pensieri, e si commenta da sola: “La puttana con le tette morbide sarebbe perfetta, con quegli occhi ammalianti attira gli uomini come il miele […].” Il secondo incontro con Susanna nel locale stordisce senza rimedio i sensi della ragazza: “Il lampo che attraversa quegli occhi limpidi mi scalda quanto la sua voce profonda […]”, e un altro tassello va a comporre il mosaico di iperbolica sensualità che l’autrice compone con una intrigante combustione lenta. Il corpo di Susanna assomiglia sempre di più a una mappa corporea costellata di sensori recettivi: “Quella voce mi rintrona come una folgore, rimbalzando fino al basso ventre […].” E Mikhail perfeziona sempre di più la sua insinuante strategia seduttiva con espedienti di ipnotica suggestione: in uno dei momenti erotici più squisitamente allusivi del romanzo, che sembra una traduzione letteraria di certe inquadrature del film di Walerian Borowczyk Racconti immorali, Mikhail percorre le labbra di Susanna con uno stick di burro cacao al gusto di pesca. Susanna viene aggredita da Mikhail in tutti e cinque i sensi: quasi intontita dalla sonorità penetrante della sua voce che gli rimbomba nel cervello, resa ipersensibile dal tocco delle sue dita sulla pelle, smarrita nella contemplazione ossessiva della sua muscolatura che preme contro la stoffa, inebriata dalla fragranza ormonale sprigionata dalla sua presenza fisica, e, giunta all’approdo finale di questa eccitante odissea sensoriale, si trova risucchiata non solo nel corpo ma anche nell’anima dal sapore delle sue labbra (“carnose e calde”) e della sua lingua. “Il mio respiro affannoso e le mie guance infiammate dal piacere gli confermano che mi sta dominando. Sono fuori di testa […]” è il pensiero che invade Susanna dopo un contatto intimo con le dita di Mikhail che le scatena un orgasmo inaspettato. “Mi perdo dentro di lui fino quasi a svenire.” Confessa in uno dei momenti più estatici del postlovemaking. Il sarcasmo velenoso che Mannu abilmente dissemina lungo l’itinerario narrativo si sofferma più volte sull’esteriorità machista di Mikhail e sulle sue pseudo-riflessioni traboccanti di feroce misoginia, degne di un femminicida non dei corpi ma delle menti, che ama umiliare e dominare la donna con il suo fascino luciferino e malsano di un Don Giovanni postmoderno (ma anche lui è come stregato da Susanna: “Il contatto con il suo corpo esile ha risvegliato qualcosa che credevo perduto, un senso di calore e di protezione che da tempo non conoscevo più […]”). Qualche spiraglio di tenerezza affiora a tratti fra i due protagonisti (e riemerge anche in qualche frammento dei ricordi d’infanzia di Mikhail, che quasi gli scatenano una crisi di panico), ma senza intaccare il nocciolo duro annidato dentro l’involucro di boriosa protervia fallocratica dietro cui Mikhail occulta lo spaventoso vuoto esistenziale che interiormente lo tormenta (non a caso il termine con due z al centro che indica l’organo maschile viene reiterato spesso nel suo turpiloquio: prova evidente che lo ossessiona la prospettiva, per il momento remota, di fare cilecca). Mikhail reincarna in alcune sfaccettature lo sfrontato e tracotante sciupafemmine (nonché stupratore occasionale) Alex dell’Arancia a orologeria di Anthony Burgess (portato sullo schermo da Stanley Kubrick nel memorabile Arancia meccanica): “Le flessioni potenziano i muscoli che userò per tenerla ferma […]” rimugina mentre si allena in palestra, e qui l’humour viperino dell’autrice ne ridicolizza il narcisismo muscolare da bullo di periferia. Susanna, invece, appare impeccabile nel ruolo di una sorella maggiore della Lolita di Vladimir Nabokov (e ancora di Kubrick nell’omonimo film) o di una acerba nipotina di madame d’O (sia ben chiaro, la protagonista del blasfemo e urticante romanzo di Pauline Réage, non certo quella dell’insipida trasposizione cinematografica), ma può anche immettersi sulla scia tracciata da Vesna va veloce di Carlo Mazzacurati o dalla Irena di La sconosciuta di Giuseppe Tornatore. Il calvario che subisce durante il rapimento a opera del suo persecutore Diego è un accumulo disturbante di efferate torture che immerge il lettore nel miasma dell’ecatombe di donne assassinate nel perimetro della morte di Ciudad Juarez in Messico, che i reportage televisivi hanno minuziosamente descritto per mesi: prima oggetto concupito e persino coccolato da maschi assillati dall’istinto di possederlo, il corpo di Susanna si trasforma di colpo in un simulacro carnale da massacrare. Incatenata al letto, il viso tumefatto dalle percosse, gli occhi brucianti di lacrime, una costellazione di ferite istoriate sulla pelle livida: la narratrice rende fortemente emblematico questo sistematico oltraggio, inflitto all’identità sia corporea che mentale, di una donna che disperatamente reagisce contro i suoi aguzzini. Susanna si moltiplica, assurge a simbolo martoriato di migliaia di altre donne prevaricate in almeno metà del mondo conosciuto da società ancora rigidamente patriarcali che le violentano, le scarnificano, le bruciano vive, le frustano, le decapitano. E anche nell’Occidente formalmente egualitario un sordo rancore omicida continua a sterminarle in una cronaca quotidiana di femminicidi, quasi sempre quando tentano di separarsi dal maschio-padrone.In bilico fra la discesa nel baratro di un nichilismo distruttivo e un palpitante e mai sopito anelito di riscatto, animato dalle scosse telluriche di un amor fou febbricitante braccato da una spirale perversa di scellerati patti criminosi, il racconto di Mannu suscita un impatto lancinante, scava senza falsi pudori negli impulsi e negli stati d’animo dei personaggi, tratteggia una tavolozza cromatica in cui prevalgono le tonalità espressioniste di un impianto drammaturgico crudo, disilluso, solamente a tratti illuminato da fievoli sprazzi di speranza liberatoria. Susanna e Mikhail vagano come viandanti bendati in una caligine sanguigna che pare perennemente sul punto di inghiottirli: in non pochi passaggi narrativi si respira l’atmosfera rarefatta e infetta, cupamente evocata da William Faulkner in Santuario. E scusate se è poco per una autrice esordiente!»

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