“Nel nome della donna”
“Nella nostra storia sacra gli angeli hanno un normale corpo umano,
non li distingui. Si sa che sono loro quando se ne vanno.
Lasciano un dono e pure una mancanza.” (E. De Luca)
Nei giorni 26 e 27 ottobre al Teatro Officina, e il 28 ottobre all’Auditorium Casa della carità, a Milano, vi è stato il debutto nazionale de “Nel nome della donna” spettacolo diretto da Massimo de Vita che ha riscosso un gran successo. Lo spettacolo ha visto alternarsi brani ispirati al testo “In nome della madre” di Erri de Luca a testimonianze dirette di madri straniere raccolte nelle scuole e nei consultori. Lo spettacolo, infatti, nasce da un progetto tra il Teatro Officina, la Casa della carità e la Provincia di Milano: raccogliere racconti e storie di donne straniere, migranti e madri, spesso clandestine. “Lavoro che è durato un anno – spiega Daniela Airoldi Bianchi – e che ha incontrato anche delle difficoltà, dovute tra gli altri motivi anche all’intimità di quello che si raccontava. In un primo momento, infatti, era stato proposto alle donne di parlare della loro storia direttamente al pubblico ma nessuna di loro ha accettato, così si è deciso di usare il video”. Molto toccante è stata la storia di una ragazza rumena che ha raccontato dell’assistenza ricevuta da italiani nel momento antecedente il parto. A sua figlia ha dato il nome dell’ostetrica Sara. Ciò che emerge in maniera costante nei racconti delle donne è la paura che potesse venire loro tolto il bambino ma anche la determinazione nel portare a termine la gravidanza. E sono proprio la solitudine e il coraggio dimostrato dalle ragazze madri intervistate (che spesso non hanno scelto di divenire madri), i due aspetti che legano le loro storie con quella della Maria raccontata da Erri De Luca. Una Maria che anziché “trasparire” reticente e passiva, esce fuori dalle pagine del testo: assume consistenza e rilievo e appare incinta in tutta la sua dolcezza e visionarietà, resa sapientemente dalla bravura dell’attrice Irene Quartana, a cui è affidato il racconto del momento che ha preceduto il parto, dell’“impollinazione”. Irene riesce attraverso questa “folata di parole” a sospingerci al di là del momento presente, facendo brillare quell’oscurità del ventre, quel mistero in cui la vita si crea, con l’allegria delicata e folle che esprime e ci contagia ad ogni minuto della narrazione. Il sorriso non si stacca dalle sue labbra neanche di fronte ai tormenti del povero Giuseppe interpretato da Sacha Oliviero; e nei momenti in cui dialoga col bambino parlandogli del sole, della notte e del mare ci fa rivivere come per la prima volta quello che c’è “fuori”. Il suo sorriso che arrende le parole, il linguaggio del corpo fertile che si espande fino a contenere anche ciò che all’esterno dubita e fatica a chiarirsi in Iosef, fa lievitare per lui anche il coraggio di andare…Il viaggio per il censimento inizia, Maria adesso interpretata da Eleonora Sacchi monta sull’asina per Betlemme: “Iosef, mi sembra che il censimento sia per noi un pretesto. Saremmo partiti lo stesso. L’ultima sua settimana doveva essere quella di un viandante, senza fissa dimora, sulla schiena di un’asina paziente.” (p. 56). “Mi rallegrava partire, partorire. Lalèkhet, lalèdet, partire, partorire, canticchiavo” (p. 41). Viandante è Miriam stessa che parte per partorire…(ciò fa pensare all’usanza delle donne che in alcune culture in Nuova Zelanda prima di partorire scelgono un albero e da sole “fanno cadere il loro frutto” sotto l’albero, dove rivanno più volte durante la crescita del loro bambino, e “frutto” è chiamato più volte, nel testo di De Luca, il figlio). Ma se partire è partorire, come se una forza dall’interno guidasse i passi, come se a scegliere il luogo fosse lui o lei, così anche partorire è partire per la donna: “Non ho chiamato Iosef. Gli avevo promesso un figlio all’alba ed è ancora notte. Fino alla prima luce Ieshu è solamente mio” (p.67). Maria, infatti, partorisce sola e spontaneamente (gli uomini non potevano assistere al parto) godendo del momento in cui esce il figlio e tenendolo tutta la notte a contatto col calore del suo corpo. L’essere incinta è vissuto come un’estasi e l’uscita di Ieshu come l’orgasmo supremo. Le ultime parole di Miriam/Maria prima di presentare il mondo a Ieshu sono una preghiera perché il figlio sia uno come tanti, non sia speciale, per poi concludersi con la descrizione di un nuovo giorno, il buco lasciato all’interno e a terra la placenta “sacco vuoto della nostra attesa”…da queste parole si ristabilisce l’intesa tra madre e bambino come un sogno suonato in due fin dall’inizio. Partorire è partire madre, con desideri e altri calci che non vengono più dall’interno ma che risuonano doppi quando dall’esterno il mondo li dà al figlio. Ma partorire è anche partire oltre ogni paura.
La scelta del tema del viaggio nel “portare a galla” da difficoltà e tormenti l’altro che è in sé, legata al problema attuale di molte donne immigrate, oltre a dare visibilità a quest’ultime riporta l’attenzione anche sulla solidarietà che nasce tra italiani e stranieri, e ci rida un’altra immagine di quella che è l’Italia.
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