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I MEDICI DELL’INTRAMOENIA COME I PROSCIUTTI E LA SANITA’ COME PRODOTTO DI MERCATO

I MEDICI DELL’INTRAMOENIA COME I PROSCIUTTI E LA SANITA’ COME PRODOTTO DI MERCATO
Ottobre 04
17:55 2023

 

Il nostro paese è dotato di un Sistema Sanitario Nazionale che deve (dovrebbe) dare assistenza sanitaria a tutti i cittadini, ma in  realtà è ben lungi dall’erogare i servizi previsti dalla legge istitutiva del 1978 e da quanto previsto dall’art. 32 della Costituzione.

Nel corso degli anni si è assistito a una progressiva privatizzazione della sanità e nella legge di bilancio dello Stato in discussione,  in questi giorni vengono operati ulteriori tagli.

A metà degli anni Ottanta – gli anni di Reagan negli Usa e della Thatcher nel Regno Unito – anche in Italia si è affermato un sistema neoliberale che ha dato il via libera a comportamenti sociali ed economici ispirati alla vulgata secondo cui il sistema pubblico è inefficiente e marcio, mentre il privato è bello. Berlusconi diceva che “lo Stato mette le mani nelle tasche degli italiani” e la presidente del consiglio Meloni ha parlato qualche giorno fa di “pizzo di Stato”.

L’interesse privato e il dio denaro sono stati dunque sdoganati da inutili orpelli cattocomunisti e siamo giunti a un sistema in cui la solidarietà è stata spiazzata (fortunatamente ancora non del tutto) dall’egoismo. Chi era ricco è diventato più ricco e chi era povero più povero.

La politica neoliberale ha fatto sì che il Sistema Sanitario Nazionale sia passato da struttura di natura pubblica con al centro il paziente a un insieme di aziende – non a caso le Unità Sanitarie Locali sono diventate Aziende Sanitarie Locali – in cui la bussola è il bilancio economico. La sanità è diventata un prodotto che chi ha i soldi può acquistare sul mercato.

Siamo arrivati a situazioni incredibili: al Policlinico San Marco di Zingonia, in provincia di Bergamo, per “saltare la fila” al pronto soccorso bisogna pagare 149 euro. Poiché l’accesso alle cure è e deve rimanere libero, universale e gratuito, non è accettabile che chi può permettersi di pagare 149 euro per accedere in tempo reale alle strutture sanitarie possa curarsi, mentre chi non ha questa possibilità economica è costretto ad attendere lunghe ore, magari sulle barelle delle ambulanze, con gravi disagi e il fermo improprio dei mezzi di soccorso.

In questo sistema mercantilistico i medici ospedalieri sono autorizzati a svolgere attività professionale intramoenia, cioè all’interno delle strutture in cui operano; al mattino li paga lo Stato e al pomeriggio il paziente. Ma per quale motivo il dottore eroga le proprie cure secondo questo doppio criterio? Semplicemente per soldi. Prendiamo due casi recenti. Una visita reumatologica al Policlinico di Tor Vergata costa 200 euro per il “professore”, 150 euro per un assistente e 120 per un altro medico. Stesso criterio all’IFO: una visita ematologica va da 200 euro, a 180 euro, a 120 euro. Qual è la ratio di queste differenze? Non si può concepire che in un reparto medico, dove regna, o dovrebbe regnare, il lavoro di gruppo, un dottore sia più “bravo” e quindi più costoso di un altro. I dottori non sono mica come il prosciutto: il San Daniele costa di più di quello di Parma e di quello di Bassiano in ragione della qualità del prodotto. Ma ormai la cura di un malato è un prodotto sul mercato. Le aziende sanitarie potrebbero applicare, almeno per salvare la faccia, una sola tariffa così da non etichettare i medici come di serie A e di serie B e da salvaguardarne la dignità personale e professionale.

Non sono poi rari i casi in cui il medico ospedaliero o universitario, svolto il proprio compito in corsia, incrementa il proprio reddito sia con l’intramoenia sia con visite private il cui costo raggiunge tranquillamente i 200 euro (vuole la ricevuta?). Questi medici, che hanno scordato che nel giuramento di Ippocrate si sono impegnati a curare chiunque ne abbia bisogno, fanno spesso una vita grama, corrono qua e là tutto il giorno accumulando ingenti quantità di denaro che, paradossalmente, non riescono nemmeno a godersi (c’è sempre il rovescio della medaglia).

Questa concezione classista della sanità non è eticamente e socialmente accettabile, a maggior ragione in un momento in cui le fasce più deboli della popolazione, soprattutto gli anziani, soffrono per una crisi economica che li vede troppo spesso costretti a rinunciare alle cure.

Ma non tutti i medici sono così. Quelli delle ong come Medici senza frontiere e Emergency vanno in giro per il mondo assistendo pazienti per un normale stipendio e, talvolta, a rischio della propria incolumità personale.

Vi è poi il fulgido esempio del prof. Antonio Ascensi. Professore di anatomia patologica al Policlinico Umberto I di Roma, esimio scienziato membro dell’Accademia dei Lincei, docente che insegnava non soltanto la materia scientifica ma l’etica e la pratica del medico, in tutta la sua carriera non ha mai chiesto di essere pagato per l’assistenza che elargiva a piene mani. Si racconta – e non vi sono dubbi che ciò corrisponda al vero – che un giorno il presidente della repubblica Giuseppe Saragat gli raccomandò un suo parente. Ascensi lo curò, come faceva con tutti senza alcun compenso. Dopo qualche tempo gli arrivò una busta di Saragat con i ringraziamenti ed un assegno di un milione di lire (all’epoca era una cifra rilevante). Ascensi, nel restituire l’assegno a Saragat, ci tenne a sottolineare che per il suo lavoro era già pagato dallo stato.

La politica dovrebbe occuparsi dei più deboli, specialmente per garantirne la salute, ma non lo fa adeguatamente. Alcuni medici, approfittando del contesto neoliberale, accumulano soldi senza remore. Ma, come dimostrano i casi delle ong e la vita di Antonio Ascensi, per un medico il migliore riconoscimento non sono i soldi (tanti) ma vedere il paziente guarito – la professione del medico è una missione, o no?

 

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