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Monte Porzio Catone. Un altare paleocristiano nell’ipogeo di Pilozzo

Monte Porzio Catone. Un altare paleocristiano nell’ipogeo di Pilozzo
Ottobre 20
14:44 2010

L’altare paleocristiano con i simboli scolpiti nel tufo e il Tabernacolo scolpito nella rocciaLa simpatica cittadina di Monte Porzio Catone, ubicata nel versante collinare a nordovest dei Castelli Romani, si è andata sviluppando intorno ad un precedente edificio fortificato nel periodo rinascimentale e, da allora, la sua storia si è intrecciata con quella delle grandi famiglie del Lazio e con gli eventi che hanno interessato la regione.
Ma, se l’origine di Monte Porzio può ritenersi relativamente recente, non è così per il territorio che la circonda che da circa tre millenni ha partecipato a grandi vicende storiche come testimone e come protagonista; l’importanza del luogo è dovuta alla sua straordinaria posizione collinare dominante gran parte del Lazio centrale fino a Roma e alla viabilità sottostante che fin dall’antichità ha permesso le comunicazioni tra l’Etruria, al Nord, e l’Italia meridionale, attraverso le valli del Liri e del Sacco. Sul territorio si possono tuttora riscontrare le tracce delle varie fasi storiche attraversate e, andando indietro nel tempo, a partire dal Rinascimento, quelle lasciate dalla nobile Contea di Tuscolo e anche diverse vestigia romane testimonianti mille anni circa di importante storia antica: proseguendo, sempre all’indietro nel tempo, si incontrano, poi, le orme del glorioso Stato Tuscolano al cui periodo appartengono la battaglia del Lago Regillo, avvenuta agli inizi del V sec. a.C., proprio nella sua zona pedemontana, e l’affermarsi della contrada agricola tuscolana di Porci che lasciò il suo nome alla zona.
Il passato storico è, perciò, assai ricco, ma ancora non basta, perché procedendo sempre a ritroso e penetrando nella preistoria è possibile intravedere le impronte di civiltà primitive risalenti all’Età del Bronzo e testimoniate da reperti archeologici rinvenuti in passato e anche da opere umane assai remote come sembrano essere alcuni misteriosi cuniculi scavati nel territorio tra i quali anche la grande caverna esistente ai piedi della collina e conosciuta come Ipogeo di Pilozzo. Questo ipogeo, sul quale vogliamo soffermarci, è un complesso formato da una caverna principale e da diversi cuniculi e corridoi secondari. La caverna è larga, mediamente, 5 metri, alta 3/4 e lunga 40; la sua lunghezza originaria doveva, però, essere maggiore, perché sembra che la prima parte, prospiciente all’ingresso antico, sia stata tagliata e demolita, forse, per necessità collegate alla costruzione della vicina villa padronale. Dalla cavità principale parte un cuniculo o corridoio dritto e lungo circa duecento metri, che presenta una serie di nicchie scavate nelle pareti che fanno pensare ad un loro uso passato come depositi o come sepolture a guisa di catacomba; dalla parte terminale del corridoio, poi, si stacca un ramo a sinistra, verso la via di Pilozzo.
L’ipogeo, nel corso della sua lunga storia, ha subito, certamente, vari iterventi di ampliamento e di adattamento, l’ultimo dei quali lo ha trasformato in una cantina per la conservazione del vino in bottiglia.
L’antichità del complesso è avallata anche dalla presenza, nella parete a destra di chi entra, di un cuniculo avente misure di uomo. Il cuniculo (oggi non più visibile perché tamponato), a detta di persone che lo hanno esplorato, partiva dall’ipogeo e si prolungava in salita per circa un chilometro verso il Barco Borghese; insieme agli altri cuniculi aveva la precisa funzione di via di fuga per uomini e animali e, nello stesso tempo, serviva anche come camino di tiraggio e dispersione dei fumi e di aerazione della caverna. Queste necessità che, a suo tempo, ne determinarono il faticoso scavo sembrano sufficienti per porne l’origine in una età molto remota. La caverna, infatti, potrebbe essere stata realizzata verso il IV sec a.C. quando si sviluppò la vicina contrada agricola di Porci, al fine di ottenere un magazzino per la conservazione di prodotti agricoli o zootecnici con temperatura costante, ma la sua origine potrebbe anche risalire all’Età del Bronzo Medio per essere utilizzata come rifugio sicuro di greggi e pastori. Oggi è, praticamente, impossibile riconoscere le varie fasi temporali e gli usi che ne sono stati fatti perché le tracce antiche sono ormai scomparse, ma una testimonianza del passato, bella e suggestiva, è ancora rimasta e visibile. Si tratta di un altare paleocristiano scolpito nella pietra tufacea nel fondo del corridoio opposto all’ingresso. La presenza di questa interessante scultura colpisce tutti i visitatori che si pongono subito una spontanea domanda: chi fu e quando e perché venne scolpito questo altare cristiano di stile antico?
Per trovare una risposta convincente a questa domanda, abbiamo cercato di conoscere, prima, le versioni diffuse e maggiormente condivise che, essenzialmente, sono le seguenti:
1) La caverna fu rifugio di cristiani che fuggivano dalle invasioni barbariche, prima o dopo la caduta dell’Impero Romano.
2) L’ipogeo, durante il medio evo, fu utilizzato da congregazioni segrete, più o meno eretiche, e l’altare venne realizzato per il rituale.
3) Il complesso dell’ipogeo è servito come catacomba cristiana.
4) L’altare scolpito fu opera di qualche proprietario del fondo appassionato di arte antica.
Dopo attento studio ci è sembrato, però, che le versioni su accennate fossero troppo vaghe e prive di riscontri storici e, quindi, la verità doveva essere un’altra e così, seguitando a cercare, e dopo lungo riflettere, ci siamo orientati verso una nuova spiegazione che, a prima vista, può sembrare azzardata, ma che, via via, trova diversi riscontri; la nuova ipotesi che proponiamo si aggiunge pertanto alle precedenti:
5) L’ipogeo di Pilozzo è stato il primo rifugio, in territorio tuscolano, dei Frati di S. Antonino, martire di Apamea, la cui presenza medioevale è confermata dal nome della collina soprastante, comprendente anche la chiesetta omonima ricavata da un’antica tomba pagana. Da questa ipotesi si evince subito che i fraticelli antoniniani, al loro arrivo in zona, erano privi di mezzi economici e, quindi, costretti a trovare un primo rifugio nella caverna di Pilozzo; d’altra parte, quel luogo poteva avere anche un significato devozionale pensando alla caverna di Apamea dove era stato nascosto e sepolto il corpo di S. Antonino martire. Naturalmente, i frati avevano necessità di un altare per adempiere al rituale religioso e, allora, risolvettero il problema realizzando la scultura nel tufo imitando ed emulando il loro Santo che, da vivo, faceva lo scalpellino.
L’ipotesi, ora proposta, oltre che basarsi sui toponimi esistenti, trova ulteriori indizi e prove dallo studio delle figure scolpite e ben conservate nell’altare che sono le seguenti:
A) una croce, nella zona centrale, di evidente impronta orientale o bizantina che ben si collega ai frati di S. Antonino originari della Siria che aveva fatto parte dell’Impero d’Oriente;
B) decorazione con tralci di vite simbolo di vita e di comunione assai usata nei primi secoli cristiani;
C) il fiore a sei petali, un disegno ornamentale molto diffuso nelle civiltà antiche e pure nell’Impero Romano; tale ornamento fu anche usato, nei primi secoli cristiani, per abbellire la finestra rotonda che illuminava l’altare, chiamata “Oculos Dei”. Il disegno, ripetuto tre volte, si adatta bene all’VIlI secolo; da esso derivarono, poi, i magnifici “rosoni” che hanno adornato le facciate delle grandi cattedrali e delle chiese cristiane;
D) un volto umano con ali ed aureola che poteva indicare un angelo delle grotte, ma richiamarsi, pure, allo Spirito Santo (terza persona della SS.ma Trinità sancita dal Concilio di Nicea dell’anno 325) rappresentato, nei primi tempi, con sembianze umane e, successivamente, simboleggiato con la Colomba della Pace;
E) decorazione dell’altare con fronde di palma, simbolo dei martiri cristiani in generale e, secondo alcuni sinassari antichi, simbolo specifico di S. Antonino da Apamea;
F) presenza di mensole a destra e a sinistra dell’altare che si richiama alla tradizione bizantina;
G) scultura di un probabile artoforio bizantino somigliante al tabernacolo cattolico per la conservazione delle Sacre Specie, posizionato al centro del frontespizio dell’altare; per forma e centralità esso sembra corrispondere ai canoni ufficializzati dalla Chiesa durante il Concilio di Trento nel XVI secolo. Questo particolare, però, solleva molte perplessità e pone un preciso dilemma: fu il Concilio a dettare la forma del tabernacolo di Pilozzo (in questo caso l’altare sarebbe di età piuttosto recente) o fu quest’ultimo o altri modelli simili a influenzare la scelta del Concilio?
A nostro avviso la scultura di Pilozzo che indica una edicola sacra e raffigura la facciata di un tempio con cimasa superiore a forma di classico arco romano è, sicuramente, un simbolo importante di valori cristiani assai più antico del Concilio di Trento e nato, probabilmente, nei primi secoli, in seno alla cultura cristiana mediorientale. Come prima conferma di questa possibilità, esiste il fatto che disegni molto simili si riscontrano su oggetti liturgici bizantini costruiti intorno all’anno mille; si aggiunga, inoltre, che modelli altrettanto somiglianti sono molto diffusi nelle varie architetture antiche e moderne, sia a carattere sacro che profano.
Ipogeo di Pilozzo, volto umano con ali e aureola nell’altare paleocristianoSul problema del tabernacolo occorre anche tenere presente che, nei templi cristiani, dalle origini fino al Rinascimento, le Sacre Specie venivano conservate nei luoghi più disparati secondo il gusto e la tradizione locale (sacrestia, base dell’altare, ripostigli parietali, ripostigli penduli, ecc.) con una situazione che si era fatta troppo difforme.
Per tale motivo il Concilio scelse, tra le varie soluzioni esistenti, quella che mostrava maggiori requisiti di nobiltà, di sacralità e di centralità, più adatta, insomma, alla custodia della SS. Eucarestia adottandola e raccomandandola, poi, a tutte le chiese cattoliche.
Sembra che la scelta abbia premiato il modello già realizzato dal vescovo di Verona il quale, a sua volta, si era evidentemente ispirato a precedenti simili visti in giro e, probabilmente, importati in Europa dalle comunità che erano fuggite, verso il VII e VIII secolo, dal Medio Oriente.
L’adesione alla nuova normativa della Chiesa, però, non fu né immediata né generale se costrinse la Congregazione Riti, nel 1863, ad imporla nuovamente come obbligatoria per la custodia della SS. Eucarestia ribadendo, insieme, la posizione del tabernacolo al centro dell’altare. Comunque, lasciando in sospeso la questione del tabernacolo (che resta però da definire), si può, intanto, concludere che i toponimi medioevali e le figure scolpite a Pilozzo concorrono, nel loro insieme, a rendere molto probabile l’ipotesi dei Frati di S. Antonino quali autori dell’altare paleocristiano durante l’VIlI secolo.
Quel secolo fu un periodo di grandi turbolenze politiche, militari e religiose perché conobbe l’avanzata impetuosa dell’Islam nell’Africa del nord e nell’Europa occidentale, vide il protrarsi delle guerre tra Bizantini, Longobardi e Franchi e, insieme, l’affermarsi del feudalesimo e dell’incastellamento e fu anche scosso, drammaticamente, dalla lotta degli iconoclasti che produsse contrasti e divisioni dolorose entro le varie comunità cristiane.
Per quanto ci risulta, non esistono storie scritte, complete e attendibili, sull’avventura monteporziana dei monaci antoniniani e, allora, proviamo a costruirne una, basandola sull’ipotesi più avanti presentata, che, per forza di cose, può essere solo sintetica e approssimata: nel secolo VIII un piccolo gruppo di frati antoniniani in fuga dalla Siria o, forse, staccatisi dalla confraternita madre della Noble Valle, nella Francia del sud, si mise in cammino verso Roma, cuore della cristianità. Ma i fraticelli, poveri e sprovvisti di credenziali autorevoli e, forse, guardati anche con sospetto, giunti a Roma non trovarono adeguata ospitalità e si dovettero, perciò, adattare, in via provvisoria, al rifugio offerto dall’ipogeo di Pilozzo che, allora, probabilmente, era una catacomba in disuso. I monaci erano ferventi religiosi e avevano, quindi, bisogno di un altare e così ne scolpirono uno, corrispondente alle loro tradizioni, nella parete tufacea della caverna, dopodiché poterono riprendere la vita di comunità in nome di S. Antonino martire ed iniziare l’opera di assistenza spirituale e materiale verso la popolazione locale che li ricambiò con affetto e gratitudine. Forse, fu proprio per ringraziamento che, in un tempo successivo, fu loro donato un casolare agricolo nella sovrastante collina che, da allora, prese il nome di Colle di S. Antonino.
Dalla nuova sistemazione collinare, tuttavia, risultava alquanto scomodo l’uso dell’altare già scolpito precedentemente nella caverna, ma i fraticelli non si persero d’animo e, allora, trasformarono una vicina e antica tomba pagana in una chiesetta cristiana che, pur essendo piccola, era, comunque, sufficiente per la popolazione locale di quel tempo e che venne intitolata a S. Antonino martire.
I buoni frati restarono sul territorio per più di due secoli rinnovando, naturalmente, il loro organico con l’accoglimento di nuovi proseliti e continuando l’attività di assistenza alla popolazione locale. Essi scomparvero del tutto nei primi decenni dopo l’anno mille, forse per epidemia, forse per mancanza di nuovi seguaci o, forse, per altri motivi; fatto sta che, nell’anno 1077, la cappella di S. Antonino e il terreno pertinente, ormai del tutto abbandonati, vennero assegnati dai Conti di Tuscolo, all’Abbazia di Montecassino.
Da allora, sono trascorsi diversi secoli, ma il ricordo è rimasto vivo nel DNA e nel cuore dei monteporziani che amano e venerano ancora S. Antonino Martire di Apamea come loro Santo Patrono.
N.B: La sintesi ora riportata va considerata solo una ipotesi di ricostruzione storica; eventuali nuove acquisizioni di notizie sicure e prove certe potranno completarla o correggerla.

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