Moloch o della fragilità
Va in scena fino al 20 ottobre alla Casa delle Culture. Uno spettacolo di Roberto Risica con Alessandra Angelucci, Sabrina Broso, Massimiliano Frateschi, Teodora Grano, Alessandro Lanza, Roberto Risica.
Scene: Selena Garau
Costumi: Oncut Studio
Musiche: Angela Bruni
Una composizione drammaturgica che mescola danza, musica e poesia per dar corpo ai disagi che abitano il quotidiano. In scena due personaggi, sbandati e inadatti, compagni di vagabondaggi, uniti da un legame muto e delicato, esplorano un non luogo surreale e affascinante che lentamente si trasforma in un mostro biblico, bestiale e gigante, fiabesco e irreale, da cui scappare o a senza rimedio. Un gioco di antitesi, una contrapposizione di pieni e vuoti, un sogno visionario delle nostre vicende umane che si risolve in uno slancio vitale verso la bellezza che tutto sana e salva. Ché cerchiamo di parlare a qualcosa che non è l’intelligenza.
Note di regia
“Il male ci mette alla prova e insieme ci dà l’occasione di guarire”
Alda Merini
C’è un dolore che sembra riguardare soprattutto l’occidente, una distanza spietata tra il nostro sentire e il ;nostro vivere, tra il dentro e il fuori. Ma è una sofferenza inespressa, un’implosione silente, una frattura che non trova sfogo, che si espande dentro. Il disorientamento è diffuso come un rito comune. Eppure la nostra tragedia è declassata ad una rassegnazione malinconica, ci infliggiamo una serenità posticcia per nascondere il malessere quotidiano di un conflitto impari e feroce. Il nostro è un disagio privato, muto, segreto. Come animale ferito, la nostra richiesta d’aiuto è senza parole. E a forza di contenerci siamo diventati il contrario di un urlo.
Io credo ancora nella forza della poesia, nel riscatto della grazia, nella potenza disarmante della delicatezza, come atto di resistenza e di salvazione. Credo nella necessità di indagare la propria fragilità, tratto imprescindibile del nostro essere umani, instabili e precari. Credo nella necessità di proteggerla, la nostra fragilità, di considerarla rifugio, ricettacolo, enclave dalla brutalità, caldo ventre di madre, riparo dalla ferocia del mondo. E come Artaud auspico un teatro capace di tradurre ciò che la vita dimentica, dissimula, o é incapace ad esprimere. “E non questo smacco” è un’esortazione all’ascolto, un incitamento a non reprimere la propria vulnerabilità, rivendicarla. Essere friabili, come a dire essere umani. Per contrapporsi all’abisso, per guarire l’urlo di questo mondo dolente e disperato, per prendersi cura del suo vagito straziante e della nostra sete d’aria e luce, per concederci finalmente un’esplosione di gioia.
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