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“Mille anni di buone preghiere”

“Mille anni di buone preghiere”
Settembre 01
02:00 2008

Vincitore, meritatamente, del Fiuggi Family Festival, il film di Wayne Wang, con la sceneggiatura di YuYun Li, ci racconta con sensibilità umbratile, attenta alle sfumature, la rinascita del rapporto tra un padre (proveniente dalla Cina comunista) e una figlia residente e ormai radicata negli Stati Uniti. Le difficoltà della relazione, dell’individuazione e dell’adattamento di un codice comunicativo, costituiscono il filo rosso lungo il quale si dipana una storia semplice, fatta di piccoli gesti, sotto l’occhio di una telecamera ‘pietosa’nel cogliere, nei silenzi più che nelle parole, il disagio, su un duplice piano, spaziale e temporale. Disagio dello ‘straniero’, nel rapportarsi con un contesto profondamente diverso; disagio dell’’anziano’ in quanto tale, con la lentezza dei suoi movimenti e la non spendibilità della sua esperienza in un mondo che procede troppo velocemente. È così che il vecchio padre cinese, arrivato negli USA usando le sciarpa della Guardia Rossa come contrassegno del bagaglio, trova ad accoglierlo una figlia ormai perfettamente ‘americana’, tanto composta quanto freddina, anzi man mano sempre più infastidita dai gesti del padre: l’annotarsi ingenuo di un’espressione della pubblicità per migliorare il suo inglese, o, peggio, l’appendere alla porta di casa il bel ventaglio rosso espressamente portato dalla Cina, in barba alla conquistata integrazione della ragazza. Comincia così una convivenza scomoda, tra il padre, che rappresenta il continuo richiamo alla tradizione, e la figlia, che con quella ha voluto recidere i legami più profondi. Unico momento di contatto la cena insieme, con una cucina anche quella ‘diversa’(il pomodoro nello spezzatino di pollo, l’acqua troppo fredda “come piace agli americani”). Ma durante le lunghe ore di solitudine, mentre la figlia è al lavoro, il padre comincia la sua esplorazione del mondo circostante, prima all’interno del condominio, poi al parco. Si guarda intorno, studia abitudini e ‘stranezze’, cercando contatti e intrecciando relazioni con altri ‘stranieri’: dalla ragazza frequentatrice di obitori, all’anziana profuga iraniana, con cui stabilisce un rapporto fatto di taciti appuntamenti quotidiani: tutti i giorni alla stessa panchina, un incontro che diventa lo scopo di una giornata. Un giorno la signora arriva accompagnata, deve recarsi in ospedale, dice, a visitare il nipote appena nato di cui dovrà prendersi cura. Ma quando, il giorno dopo, l’amico cinese torna con un piccolo dono augurale per il neonato, ecco l’amara verità: l’amica non tornerà più, confinata in una casa di riposo dal figlio e dalla nuora, per impedirle di interferire con la crescita del piccolo. L’ennesima delusione per il vecchio, che sempre più solo comincia a parlare tra sé e sé, a rimproverarsi di essere stato un cattivo padre. Perché talvolta ora la figlia, separata, manca al consueto appuntamento della cena, esce con un ‘amico’. Un russo, con cui il padre, andato ad aspettarla all’autobus, la vede rientrare, ascoltandone non visto la conversazione. È l’uomo per cui ha abbandonato il marito, ma la ragazza rifiuta una proposta di convivenza, perché se per poter attraversare un fiume in barca con qualcuno ci vogliono 300 anni di buone preghiere, per condividere il cuscino ne occorrono 3000. E, soprattutto, perché l’uomo ha una figlia, cui Yilan non vuole sottrarre quello che è mancato a lei, un padre che possa insegnarle a comprendere il mondo e gli uomini. Con il richiamo all’antica saggezza cinese si chiude il cerchio. Giocato sulla metafora di fondo di una cultura antichissima (il padre) che, aprendosi al Nuovo Mondo (il contesto americano), produce nuovi modelli culturali (la figlia), in cui come in tutti i rapporti di filiazione qualcosa si perde ma qualcosa di nuovo si produce, secondo una dinamica di tradizione/tradimento, il film dilata la forte valenza simbolica ai più minuti particolari, segnando anche la scelta dei luoghi::il soggiorno, spazio dell’ospitalità e dell’accoglienza, divenuto territorio del padre; la cucina, area condivisa della comunicazione; la camera da letto, luogo dell’intimità, che si apre solo ora. È arrivato infatti il momento dell’’agnizione’, questa volta interiore, del disvelamento e ‘riconoscimento’ tra padre e figlia. Che avviene appunto in camera da letto, dove i due, dismesso l’abito formale, si confessano l’inconfessabile: il fallimento professionale del padre, esautorato dal suo importante incarico e messo a far l’usciere per una ‘disobbedienza’ alle indicazioni del regime; il rancore della figlia per il presunto tradimento del padre, e la sua colpa di aver abbandonato il marito. È qui, nel momento della risoluzione narrativa, che si esplicita in tutta la sua evidenza la forza simbolica del film e la centralità della riflessione sul linguaggio. La figlia, rimproverata di mancare di pudore nel parlare e ridere con l’altro, giustifica il suo comportamento con l’uso della lingua straniera, codice neutro per un’esternazione straniata dei sentimenti. Mentre lo specchio, davanti al quale la scena si svolge, rappresenta concretamente lo ‘strumento’ della mediazione tra i due, che solo in modo indiretto, frapponendo l’immagine riflessa, vincono il pudore e riescono a ristabilire il contatto. Ormai è matura la partenza del padre, un distacco senza addii, secondo il codice antico del silenzio, codice che Yilan accetta, lasciando che il padre si avvii da solo a scoprire l’America, non in aereo ma attraversandola in treno, perché “come faccio a conoscerla se la sorvolo”? Rifiuto della superficialità, richiamo alla profondità: ultimo messaggio di questo film straordinario, quasi ’pirandelliano’nel gioco semiotico, nella distribuzione sapiente degli indizi del grande equivoco della vita, ma anche nel pudore tenero con cui è tratteggiato l’anziano. Assolutamente ‘cinese’peraltro, nella compostezza e misura delle scene e dei gesti degli ottimi protagonisti, Faye Yu e Henry O.

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