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Mi guardo attorno

Marzo 10
02:00 2007

In macchina, mentre torno a casa, mi guardo attorno. La strada, i palazzi, la piazza, le luci, tutto quello che l’uomo ha costruito nel tempo, per vivere meglio, per calore, nostalgie, accoglienza, sicurezza. E penso al senso, al fine di tutto ciò… e tutto ciò mi appare futile. Guardo il cielo e questa impressione diviene più nitida, più forte nel suo suono.
Perché in confronto al cielo, all’immensità, all’eternità che guardandolo percepisco, ogni mia mossa, dell’uomo, sembra non poter contenere la stessa eternità di questo blu scuro sparso di stelle.
Poi vedo persone camminare sul marciapiede e mi sento parte dell’umanità, di noi tutti e credo che ogni nostra opera contenga in sé il profumo dell’eternità, di colui che guardando il cielo l’ha formata, l’eternità del tramandare nostro. Ma torna lo stomaco stretto, il pensiero d’essere troppo piccolo in confronto al cielo, torna la nostalgia dell’eternità. E allora potrebbe un dio testimoniare la mia eternità, ma la nostalgia resta, anche il timore.
Da sempre usiamo l’eternità per esistere ancora oltre le lapidi e sempre. Nostalgia primitiva, fin da quando abbiamo alzato gli occhi al cielo. Guardo le mie mani, poi una stella, dov’è il tocco, dove l’unione? Che fare con queste mani, che fare della vita? E se ogni gesto appare troppo piccolo, troppo breve nel tempo, come vivere ancora senza credere che vivere non basti? Come vivere il tempo, sapendo che quello a mia disposizione finirà, con la nostalgia d’andarvi oltre? Come coniugare il corpo, me che ci sto dentro e l’eterno che posso percepire in suono? Vivere o no?
Vedo persone costruirsi recinti e costumi per riuscire a credere che la vita non vada oltre essi. Ma ho sfondato già mille volte queste convenzioni ed ora che ho vissuto l’oltre da qui non voglio recintarmi in poche cose sicure e convincermi che la vita non sia più di quel che ho attorno. Perché il mondo non è solo quello che vedo, perché non esiste solo ciò che conosco, perché molto non so, perché so che il mio corpo si stancherà nella vecchiaia fino a chiedere di cessare il respiro, perché il cielo è più grande di me, perché vivo la paura che suscita l’immensità. Ma sento e credo che la vita abbia un senso, a prescindere o a dipendere da un dio la nostra presenza qui deve avere un valore, o al massimo dobbiamo essere noi a darglielo. Mi descrivo come un istante infinito in un corpo finito. E mentre scrivo m’accorgo che essendo circondato da tempi brevi, ho creduto d’essere un minuto appena. M’accorgo che guardo e poi credo e sento d’assomigliare a quel che ho appena guardato. Ma il cielo m’è parso troppo differente da me, così indefinibile, mentre peso appena sessanta chili. Quindi? Io? Altri ottanta anni circa e poi? Un leone disse che i morti divengono stelle nel cielo. Ed un forte fiore sboccia e divampa nel mio petto, al pensiero che sarò una stella eterna.
Ma ora in terra? Intanto la vita.

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