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MESTIERI SCOMPARSI: U ‘MMASTARU A ROCCA DI PAPA

MESTIERI SCOMPARSI: U ‘MMASTARU A ROCCA DI PAPA
Febbraio 09
18:12 2022

Tempo fa sui social casualmente m’imbattei in una foto in bianco e nero, dov’era rappresentato un anziano signore con il cappello, accovacciato vicino a due basti sui quali vi erano a cavalcioni due bambini in tenerissima età: curiosa ho cominciato a chiedere, dopo aver letto che si trattava de  u ‘mmastaru di Rocca di Papa.  Così ho cominciato a indagare e, gentilissimi, i miei interlocutori mi hanno indicato a chi rivolgermi per domandare notizie su Benedetto Di Giacomo, questo il nome dell’uomo in posa sulla foto; sono stata fortunata e Anna, sua nipote è gentilissima e racconta…

Era nato il  primo giorno di primavera,  21 marzo 1883 a Sante Marie, un piccolo borgo dell’entroterra abruzzese poco distante da Tagliacozzo, in provincia di L’Aquila,  paesino circondato di faggi e castagneti. Un lavoro, il suo, tramandato da generazioni,  in un luogo che s’attraversava a dorso di mulo e di asino carichi di legname, carbone, fascetti e altre merci. Necessario quindi dotare di basti i quadrupedi, perché potessero svolgere il loro compito, ottimizzando i loro sforzi e scongiurando potessero in qualche modo ferirsi con il carico stesso.

Il basto – ‘mmastu in dialetto di Rocca di Papa – potrebbe essere paragonato a una sella molto più rudimentale: e poteva essere utilizzato sia per il carico,  che come cavalcatura; per realizzarne uno occorreva almeno una settimana di tempo e le attrezzature erano arnesi che richiedevano comunque l’abilità manuale dell’uomo.

Benedetto, si procurava pezzi di legno nel bosco, soprattutto dopo il taglio, quando nuove piante – acero, faggio o carpino -, iniziavano la loro crescita: faceva in modo che il piccolo fusto curvasse grazie a semplici accorgimenti, legandolo o mettendolo sotto dei pesi, terra per esempio.

Inizialmente Benedetto svolgeva il lavoro artigianale muovendosi da un paese all’altro, in modo itinerante, prestando la sua opera tra l’Abruzzo e i tanti centri laziali nei quali era richiesta la sua opera, fin quando non si trasferì definitivamente a Rocca di Papa nel 1938 insieme a sua moglie Domenica Mari, conterranea di quattro anni più giovane di lui, e suo figlio Renzo – papà della mia interlocutrice -: allora era diciottenne, secondo di cinque figli, tre maschi e due femmine: Onorina, Agata, Enea e Sestilio.

Quando arrivò a Rocca di Papa, Benedetto acquistò una casa in una zona del centro storico, il Carpino, oggi piazza Valeriano Gatta: era un edificio che aveva nella parte inferiore un laboratorio dove lui e poi anche suo figlio Renzo costruivano i basti; i fratelli e le sorelle trovarono in seguito altre opportunità lavorative.

Tornando al suo lavoro, proseguito poi solo da Renzo quando il 17 maggio 1951 lasciò questo mondo,  parte del legno oltre che nel bosco, poteva essere reperito nei vari imposti di legname: ogni basto era eseguito a misura, secondo la dimensione del mulo o dell’asino; era formato da una struttura di legno così composta: nella parte anteriore e posteriore venivano posti due legni ricurvi detti arcioni che venivano lavorati e sagomati; coperti poi di cuoio per evitare che con la pioggia si bagnasse la parte interna del basto costituita di lana grezza. I due arcioni non erano perfettamente uguali: la parte anteriore era meno larga della posteriore, considerando la conformazione del dorso del quadrupede. Tra loro si inseriva una tavola curvata con il calore del fuoco, perché potesse conformarsi al corpo dell’animale, poi venivano uniti tra loro con altre tavole di legno sagomate. I chiodi per fissare il legno venivano scaldati con il fuoco per essere arrotondati, evitando che l’animale potesse ferirsi. Terminata la struttura di legno, questa veniva ricoperta di tela cucita a mano, poi riempita di lana grezza pressata e cucita con lo spago; gli aghi erano molto grandi e spesso ricavati da stecche di vecchi ombrelli.  Per realizzare un basto occorrevano dai quattro  ai sette giorni e il prezzo nel 1984 si aggirava dalle 700.000 lire a un milione.  Anche per questo motivo i basti venivano all’occorrenza riparati. I carichi fissati ai lati del quadrupede variavano dai fascetti di legna ai sacchi di carbone, ai bigonci al tempo della vendemmia, utilizzati dagli spazzini per la raccolta della spazzatura, ma potevano essere anche di altri materiali. Con l’avvento dei veicoli a motore l’uso degli animali è andato diminuendo, così come pure il lavoro di Renzo che, fino alla fine si svolgeva anche nei paesi limitrofi arrivando fino ad Artena, Cori, Rocca Massima…

Per questo motivo Renzo negli ultimi anni del ’50 aveva aperto un bar in quello che era stato il vecchio laboratorio e il lavoro artigianale veniva svolto in un altro locale vicino. Nel nuovo esercizio commerciale si alternava con la moglie Leda Cianfoni di Rocca Massima, sposata nel 1954; dal loro matrimonio  nacquero  due bambini, Anna e Angelo.

Era un padre, un nonno e un suocero speciale, mi raccontano la figlia e il marito Augusto che spontaneamente, ancora oggi lo chiama papà. Aveva tanti amici ed era generoso e affabile con tutti. Quando si dedicava al suo lavoro, gli piaceva accogliere i piccoli nel suo laboratorio, raccontava tante storie e regalava loro giocattoli di legno costruiti con le sue mani.  Suoi i carretti di Sant’Antonio che nel giorno della processione degli animali venivano decorati con i mandarini. Conosceva e parlava inglese: infatti, nato nel ’20, nel 1940 era partito per la guerra destinato al fronte africano. Catturato dagli inglesi aveva trascorso la prigionia in Inghilterra: anche là s’era fatto benvolere, lavorava in una fattoria e quando e una volta tornato in Italia, mantenne contatti epistolari con le persone che aveva conosciuto in quegli anni di lontananza. Renzo amava cantare e stare in compagnia: in estate tornava in Abruzzo dai parenti e là trascorreva serenamente le sue vacanze, ritornando con il cuore alle origini.  Fin quando non se n’è andato nel 1986, ha sempre mantenuto con la vita un atteggiamento positivo, carico di gentilezza e generosità, quella stessa che ha lasciato in eredità ai suoi figli e nipoti.

 

 

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