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Matteo Garrone – “Racconto dei racconti”

Settembre 08
17:05 2015

E’ plausibile dire che ci si aspettasse qualcosa in più, vista l’ambizione alla Kubrick del salto palesato da Gomorra. In ogni caso un bel film nell’impostazione di simmetriche corrispondenze fiabesche medioevali espresse tra costumi seicenteschi dando ruoli ben definiti agli archetipi introdotti.

Contenuti riferiti a un certo arrivismo umano che soffoca i sentimenti o piuttosto i suoi sentimenti inespressi oppure confusi, distratti nell’ego da altro, come nel caso del re e la sua pulce, un re che pure amava la figlia, ma un po’ troppo a modo suo e, senza neppure rendersene conto, la consegna a un orco. Pure si amavano, a dire il vero, le due anziane sorelle, ma l’occasione accecante rinnega o fuorvia questo sodalizio in nome dell’ambizione del sogno proibito che si profila e avvera stravolgendo l’autenticità dell’anima. A dire il vero, sono solo i due gemelli albini socialmente incompatibili ad amarsi in una forma apparentemente morbosa ma in ogni caso più sana nei corrispettivi preposti… Tornano i consolidati modelli del ricco e del povero, dell’emarginato e del potere che si confrontano nei sentimenti e dove prevale una morale sulla paura e le riserve interposte all’amare… Cosicché è più facile e comodo amare un’animale come una pulce fino in fondo piuttosto che una figlia, la vanità di una magica chirurgia estetica che ringiovanisce all’istante piuttosto che una sorella… Quindi non si tratta tanto di un non amare per arrivare ad altro quanto un confondere i sentimenti, il renderli equivoci ed egoistici. C’è tutta la mancanza di chiarezza nel non rispetto dell’altro, il desiderio irrinunciabile ad altro che allontana come pure l’inconfutabile difesa di uno status sociale nel caso dell’egocentrico amore della regina che condannano, uno ad uno, i personaggi di questa storia con un finale funambolesco, reso attraverso la simbologia del fuoco purificatore e teso in cima all’esoterica struttura ottagonale di Castel del Monte. Si salva solo chi si ama, al di là di tutto questo, riconoscendosi in una sincronia con l’anima … Per amare, dunque, occorre un coraggio e una certezza di tempi in sintonia espressi da una fontana che, con perfetto tempismo, non zampilla più acqua bensì sangue, come pure il progressivo andare incontro all’altro senza mai rinnegarlo, accettandolo e non discriminandolo o, tanto meno, vergognandosene pubblicamente, come nel caso della regina e delle due sorelle. L’amore, dunque, è anche donarsi con fiducia e totale apertura, come accade all’altra sorella che si fa persino scuoiare viva perseguendo questo intento. Un amore teso ad accettare e seguire l’altro senza riserve; se c’è naturalmente. Altrimenti, come nel caso del re con la figlia, ci si ritroverà, prima o poi, col rimpianto e l’angoscia generati dalle confusioni e le velleità ispirate da qualche pretestuosa pulce che muore sempre troppo presto e ci farà poi sentire due volte soli e un’altra volta ancora condannati dal rimpianto per l’occasione perduta. La metafora più bella resta comunque quella inizialmente espressa dal cuore del drago, genesi dualistica nella vita per due cuori che si riconoscono all’unisono riconducendo all’unità nell’amore espressa dai due gemelli albini di diversa madre. Una nota di cuore, a dire il vero, la regia la spende anche a favore dell’orco, sì una sorta di animale incapace di esprimere, per sua intrinseca natura, un rispetto per gli altrui sentimenti ma comunque autentico nel suo sentire primordiale, seppure strettamente legato al possesso dell’altro e che comunque lo vincola a morire per l’altro. Il principe incarna lo stereotipo del dissociato in amore che, della stessa persona, in chiave simbolica condanna e butta via la vecchia e sposa la giovane senza avere alcuna curanza se, oltre la pelle, sussista un’anima. Un principe che, di fondo, coincide con la stessa regina su piani paralleli, poiché anche lei, a sua volta, sacrifica tutto e tutti, a partire dal consorte, per rincorrere un desiderio di maternità ossessivo, ma prima ancora perché ama solo ciò che è ricco e blasonato evidenziando la rispettiva dissociazione attraverso l’equivalente che è povero e indigente personificato nella dualità dei due gemelli albini. Amori confusi dunque in una presunta, effimera felicità incarnata solo con l’eterna bellezza fisica esteriore e non dell’anima, dei soldi e non dei valori, dei vizi e vezzi e non della compassione, dove i problemi vanno annullati a priori anziché essere condivisi, elaborati e sofferti insieme quali humus degli affetti che li attraversano uniti. Emblematica è la sorella plastificata a nuovo nella pelle della nuova giovinezza, lei ha trovato la “svolta” che, nei confronti dell’altra sorella, incarna quella della ‘buonista ipocrita’ di turno: cercherà sì di darle una mano in tutto, ma non potrà mai più accettare di essere una sorella, ovvero di amarla, pubblicamente. Ecco così evidenziato l’amore del “mi dispiace ma non posso” e tutte le sue più nefaste e terribili conseguenze. Va da sé che in tutti questi non amori o amori confusi oppure egoistici che si voglia nessuno è minimamente cosciente di cosa sia la compassione intesa, in primo luogo, come partecipazione. Quindi la gran parte dei personaggi sono incapaci d’intendere quanto dolore si possa arrecare all’altro. Insomma, una fiaba di altri tempi, o piuttosto un once upon a time che ben sintetizza, in fin dei conti, gli orrori di amori a metà o mancati amori caratterizzanti da sempre la mediocrità di un certo mondo e perfino divenuti, oggigiorno, modelli esistenziali per noi tutti infidi piccolo borghesi nell’animo e senza neppure più una classe sociale da difendere in quanto per sempre defunta col nuovo millennio…

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