Maternità, 1 donna su 5 lascia il lavoro al primo figlio. E aumenta la disparità salariale con gli uomini
La nuova infografica di Unicusano su donne, lavoro e gender gap analizza le disparità di genere proprie del mondo professionale e l’impatto della maternità sulla vita lavorativa di mamme e neomamme: dove trova origine la disparità di genere?
“Dignità è non dover essere costrette a scegliere tra lavoro e maternità”. Così il Presidente Sergio Mattarella nel discorso del suo insediamento a Montecitorio nel 2022. Eppure ancora oggi in Italia una donna su cinque lascia il lavoro dopo la nascita del primo figlio principalmente per l’impossibilità di conciliare lavoro e vita familiare (52%) o per considerazioni economiche in seno alla famiglia (19%).
A pochi giorni dalla Festa della mamma, l’Unicusano pubblica la sua nuova infografica su donne, lavoro e gender gap analizzando le disparità di genere proprie del mondo professionale e l’impatto della maternità sulla vita lavorativa di mamme e neomamme. Costrette, molto spesso, a rassegnare le proprie dimissioni per i ridotti servizi all’infanzia, precariato, occupazione ridotta, bassi salari e prevalenza del part-time. Tutte condizioni che, sottolinea l’Unicusano, mal si conciliano con la vita genitoriale al femminile.
Ma è la maternità ad aggravare ulteriormente la disparità fra uomo e donna. Sono le madri, infatti, a veder diminuire il proprio stipendio fino al 35% dopo 24 mesi dalla nascita del primo figlio, soprattutto se questa è avvenuta prima dei 30 anni e in mancanza di un contratto a tempo indeterminato al momento del parto. Numeri che aumentano all’aumentare dell’età dei figli: 15 anni dopo aver ascoltato il primo vagito, una madre lavoratrice assiste a un tracollo del proprio salario lordo del 53%. Si chiama “motherhood penalty”, un fenomeno che contribuisce a perpetuare il divario salariale tra donne con figli e donne senza figli, rendendo difficile per le madri mantenere l’indipendenza economica e la presenza sul mercato del lavoro. Un fenomeno che cresce al variare delle condizioni economiche e dei servizi offerti dalle Regioni (il 62,6% delle madri con lavoro non retribuito si trovano nel Mezzogiorno, il 35,8% al Centro, il 29,8% al Nord). A vincere la palma di Regioni “mother friendly”, secondo l’infografica dell’Unicusano, sono il Trentino Alto-Adige e l’Emilia-Romagna, malissimo invece Basilicata, Calabria, Campania, Sicilia e Puglia. Sorte diversa, invece, tocca agli uomini e, ancor di più, ai padri, che dopo 5 anni dalla nascita del primo figlio vedono aumentare il proprio stipendio fino al 10% in più e fino al 16% in più rispetto ad un uomo senza prole.
Tocca quindi al sesso femminile combattere una lotta non troppo tacita contro il cosiddetto “gender pay gap“, la differenza di retribuzione tra uomini e donne che, in media, porta queste ultime a lavorare gratis fino all’11 febbraio di ogni anno. Una discrepanza retributiva, profondamente radicata nel tessuto sociale ed economico del Paese, che si riflette in modo evidente nella struttura salariale media: a 18 anni una donna guadagna in media €415 al mese, rispetto ai €557 degli uomini. La disparità cresce con l’età e l’esperienza, portando a una differenza del 43% nella retribuzione complessiva tra uomini e donne in Italia.
Secondo l’infografica dell’Unicusano sarebbe stata la pandemia da COVID-19 ad acuire ulteriormente queste disuguaglianze, portando con sé, solo nel 2020, un significativo calo dei posti di lavoro (-444 mila) di cui 312 mila ad occupazione femminile. Di questi, il 77,2% erano occupati da madri. Un acceleratore di disuguaglianze economiche, sociali ed educative, dunque, che ha aumentato irrimediabilmente il tempo stimato per colmare il divario di genere.
Ma il problema è soprattutto culturale. Da sempre, la narrativa sociale vuole le donne come figura primaria nelle attività di cura. Una concezione dura a morire e che, ancora nel 2018, vedeva il 33% degli italiani d’accordo con affermazioni come “per l’uomo, molto più che per la donna, è importante avere successo nel lavoro”.
Una verità che, oggi, si traduce in convinzioni profondamente radicate che portano le donne ad abbandonare il posto di lavoro (circa 800 mila) dopo la maternità e aziende e colleghi a perpetrare, nei confronti di queste ultime, atti profondamente discriminatori.
Il gender gap non conosce strade, forme e limiti e si manifesta infatti anche nei processi di selezione, dove il 60% delle aziende pone domande diverse a uomini e donne in sede di colloquio, ponendo la maternità come una delle principali barriere all’occupazione.
Eppure le skills acquisite con un figlio sono tante: capacità organizzative, gestione dello stress, problem solving, affidabilità, empatia, motivazione sul lavoro, e lo stipendio medio ipotetico ancora di più (circa 8.000 euro al mese).
La strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026, che si propone di ridurre il tasso di occupazione uomo/donna a meno del 24%, è un esempio di quale sia la strada da percorrere. Ma non basta. In Italia, anche nel 2024 la parità di genere rimane un obiettivo ambizioso ma ancora lontano. Soprattutto a livello professionale. Un divario, quello tra uomini e donne, che per essere colmato, dovrà attendere ancora almeno 135 anni.
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