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Mark Kostabi – Tra simbolo e feticcio – L’artista newyorchese al Museo Mastroianni di Marino

Settembre 17
08:35 2009

Per l’altro filone dell’arte contemporanea, che potremmo definire introversivo, la rappresentazione realistica, al contrario, sembra irrinunciabile. Ovviamente parliamo di un realismo sui generis, in cui l’intento dell’artista non è più di riprodurre gli oggetti nelle loro qualità formalistiche al fine di poterli meglio conoscere e dominare (antropocentrismo), bensì – così ha detto Argan, parlando della Nuova Figurazione – di proporli come “frammenti di realtà, quasi residui o rottami”.
Già nel Simbolismo, nel Surrealismo e nella Metafisica dechirichiana l’espressione figurale alludeva ad una realtà non più esteriore, ma interiore. Ed era un’interiorità chiusa in se stessa, nel vuoto e nell’assurdo del proprio isolamento intimistico, talché l’oggetto non era altro che il solitario ed infranto soggetto umano (laddove nell’altro filone dell’arte d’avanguardia, quello estroversivo, l’equivalenza veniva ribaltata ed era il soggetto ad equivalere all’oggetto, l’Io al Mondo esteriore).
In un secondo tempo, a partire dal Dadaismo e dalla Pop Art, fino alle nuove espressioni figurali, l’oggetto ha vieppiù assunto le caratteristiche del feticcio e l’uomo, in sua presenza, ha finito per smarrire, anziché ritrovare se stesso. In linea con questi orientamenti recenti, ma con il proposito di recuperare il valore simbolico della realtà, Mark Kostabi, uno dei maestri dell’arte attuale d’oltre oceano, ha tenuto un’imponente Personale nel mese di luglio al Museo Mastroianni di Marino, con il patrocinio della Città e la collaborazione della Galleria Deniarte (catalogo a cura di Daniele De Nisi).
L’artista newyorchese, noto anche come musicista, ha mostrato di aderire al filone introversivo della contemporaneità, dando grande rilievo alla figura, agli oggetti. L’area in cui si sviluppa la sua poetica è infatti quella simbolistica, con particolare riguardo al clima visivo postmoderno e con spunti originali e sorprendenti che, partendo dalle suggestioni di Andy Warhol, suo maestro, si collega a parer mio alle fasi più arcaiche del fare artistico, pervenendo ad una sorta di nuova mitologia cosmogonica.
Le forti e pregnanti simbologie di Kostabi parlano di un’umanità alienata nell’odierno villaggio globale, negli anonimi paesaggi metropolitani dei nostri tempi: uomini e donne frustrati e senza volto, che tuttavia scoprono di avere occhi interiori, capaci di indagare nelle altezze dell’anima e nelle profondità. Manichini dechirichiani, maschere di carta, bambole di gomma e fantocci alieni, pupi di pezza, si aggirano in aridi paesaggi urbani e in interni abbandonati, in ambienti naturali desertificati, fra architetture misteriose e apparecchiature tecnologiche fantascientifiche. In pratica, un mondo plastificato e metallico, desolato e artificiale, dove tuttavia si scoprono presenze vivide e fosforescenti, respiri freschi e vitali di archetipi, esseri fluttuanti in slarghi cosmici, fra universi sconosciuti e tutti da esplorare. Gli uomini qualunque, i senza volto che hanno smarrito ogni identità sono i privilegiati, gli eletti di questo ulissismo. E non è forse Nessuno il nome con cui Ulisse si fa chiamare, consapevole che nella negazione di sé c’è la massima affermazione della propria personalità e che la distruzione dell’ego è la condizione per accedere alla dimensione superiore del sé, del più vero ed autentico essere di se stessi?
Il tema della dualità, in forma di racconti e di dialoghi, è fondamentale in una poetica di questo tipo, aggrumata intorno all’antitesi del simbolo e del feticcio, del ritrovamento e dello smarrimento, della superficie e della profondità, della verità e della finzione. Ed ecco la lotta e l’incontro tra il bene ed il male, tra l’uomo e l’angelo, tra l’angelo e il demonio, tra il maschile e il femminile, ed in breve tra ogni coppia di opposti considerati in disaccordo e in armonia (Eraclito).

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