MARIO GABRIELLI
Il brano, tratto dalla testimonianza del figlio Rodolfo, venne scritto e pubblicato tempo fa, anche su Testimone L’orizzonte ( Falco ed.) e su Macerie ( Associazione Di Terra e di Parole).
Lo ripropongo perché oggi il protagonista avrebbe compiuto cento anni e i figli, le nuore, i nipoti lo hanno voluto ricordare, vedremo come più avanti…
Nato nel 1921 Mario (all’anagrafe Francesco) Gabrielli, soprannominato “Barattolo” data la minuta figura da bambino, era figlio di Carlo – netturbino – e Adele; abitavano poco distanti da Piazza Garibaldi, in Via del Porticato.
Diciottenne fu arruolato e dopo un breve periodo di addestramento in Sicilia a Vizzini, provincia di Catania, fu mandato a spezzare le reni alla Grecia: raccontava ai figli, arrivò con i suoi commilitoni, male equipaggiato, allo sbaraglio. La situazione da subito si fece disastrosa. Per sopravvivere, tanta era la fame, con i suoi compagni di sventura, approfittando di una singolare usanza greca, al cimitero trafugavano il cibo lasciato sulle tombe, fin quando i parenti dei defunti non se ne accorsero.
Nei suoi racconti spesso nominava Zante, Corfù, Patrasso: solo tre mesi rimase in Grecia dove imparò a comprendere i segni scritti dell’alfabeto e a farsi capire in semplici conversazioni, soldato di un esercito fornito di armi ridicole che non raggiungevano il bersaglio. Raccontava che gli zelanti superiori volevano che sparassero ai paracadutisti inglesi che si erano lanciati sulle loro teste: – E che sparei?! Chilli eteranu…
E con un gesto lasciava intendere la moltitudine di soldati che a pioggia stavano per atterrare
-E noa tenammo ‘n fucilettu… e che ‘ccojei?-
Mite, diceva che in guerra non aveva ucciso nessuno, né mai avrebbe voluto. In lui c’era un rispetto innato per la vita: lo dimostrava anche nel suo lavoro, dove la macellazione delle mucche avveniva in modo “rispettoso” cercando di non far soffrire l’animale.
Proprio come gli aveva insegnato Gigetto.
Le vicissitudini che seguirono lo videro prigioniero in Germania; durante il trasferimento il treno fu colpito dalle bombe: furono centrati i primi vagoni nei quali viaggiavano e morirono i graduati; loro, soldati semplici ammassati nelle vetture successive, si salvarono: novanta lunghi giorni su quel lento convoglio prima di giungere a Berlino.
Prigioniero a Spandau, tutte le mattine andava a lavorare e in fila con gli altri prigionieri passava sotto la porta di Brandeburgo: scavavano trincee, rimuovevano massi… tanta la fame e la fatica: di quel periodo ricordava con riconoscenza un sorvegliante tedesco nel campo di prigionia, che con loro condivideva l’assurdità di una guerra ancora più insensata. Quell’uomo trafugava e portava ai poveri prigionieri scarti di cucina, bucce di patate o altro, mosso a pietà per quei giovani che il destino aveva fatto diventare nemici, ma nei quali riconosceva l’umanità e la sofferenza.
–Poco ci portea, che manco pe’ issi u teneanu! –
Nella camerata su una stufetta bolliva un pentolino nel quale una testa di pollo dava sapore all’acqua: qualsiasi stratagemma era utile per cercare di alleviare la sofferenza della fame, ricordando la quale Mario raccontava ai figli che in Grecia aveva mangiato tartarughe bollite.
Fuggì dal campo di concentramento quando i russi il 20 aprile del ’45, giorno del compleanno di Hitler, bombardarono Berlino. Mentre scappavano tra le macerie, passarono davanti a una banca sventrata da un ordigno. Intorno banconote e denaro tedesco che lasciarono là, consapevoli che non sarebbe servito a nulla: era ormai solo carta straccia. Per sopravvivere sottraeva frutta o ortaggi nei campi e una volta, sorpreso dal contadino a raccogliere patate nell’orto, fu colpito con il calcio di un fucile.
Lungo la via del ritorno trovarono per strada un cavallo morto: una fortuna insperata, diceva. Toccò a lui, sezionare i pezzi che si divisero tra compagni di sventura e l’esperienza acquisita in macelleria, gli permise di ritagliare per sé la parte migliore, il filetto.
Attraversata a piedi la Germania, con altri fuggitivi raggiunse la frontiera dopo il 25 aprile. Al confine salirono su un treno diretto a Roma: laceri, sporchi, affamati, stanchi, figurarsi se avessero, come pretendeva il controllore, il biglietto!
Mario viaggiava con un compaesano Ernesto Lupardini, padre di “Peppiniellu”, proprietario della trattoria U Pantaniellu, quando il controllore chiese loro di mostrarglielo.
–Ndo’ si statu fin’a mo’? – gli domandò Ernesto – Noa venemo d’a guera…-
E aggiunse altro facendo notare in modo molto esplicito che, contrariamente allo zelante funzionario, loro da anni non avevano il piacere di trascorrere la notte in un bel letto a fianco alla donna amata. Comprensivo fu il carabiniere che, chiamato dall’adirato e ottuso capotreno, vedendoli così sporchi e laceri, li lasciò andare. Umanità che solo chi soffre, sa capire.
Giunti a Roma, si presentarono al comando per consegnare la piastrina e da lì furono congedati e “pagati” con un’astronomica cifra con la quale, una volta fuori, acquistarono un paio di scarpe, visto che le loro erano ormai ridotte a brandelli tenuti uniti da logori lacci
Anni di guerra, prigionia, fame e stenti per un paio di scarpe, ironizzava…
Una volta a casa, tornò a lavorare in macelleria, accolto con gioia dai proprietari, oltre che dai suoi familiari. La guerra divenne un ricordo doloroso da lasciarsi alle spalle.
Oggi Mario avrebbe compiuto, come già premesso all’inizio, cento anni e i familiari hanno voluto ricordarlo, pubblicando sui social la foto della Medaglia d’Onore rilasciata a suo nome dal Viminale in base alla Legge n. 296/2006, destinata a tutti i cittadini italiani, militari e civili, deportati e internati nei lager nazisti dal 1943 al 1945, ex IMI.
Tale acronimo sta per Italianische Militar-Internierten, dicitura usata dalle autorità germaniche nei confronti dei soldati italiani catturati, rastrellati e deportati nei territori del Terzo Reich nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre 1943. A molti di essi venne negato lo status di prigionieri di guerra: oltre settecentomila persone, tra civili e militari, per venti mesi furono costrette, in condizioni inumane, a lavorare servendo l’economia e la macchina di guerra del regime di Hitler.
Slittata la consegna nel 2019 a causa del Covid e, sempre per le precauzioni ancora in atto, anziché al Viminale dalle mani del Presidente della Repubblica, la cerimonia della consegna della medaglia è avvenuta il 28 gennaio 2021 a Palazzo Valentini, sede della Prefettura di Roma; a ritirarla, visibilmente commossi, i figli Rodolfo e Roberto Gabrielli.
Coniate dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, le medaglie in metallo, riportano da un lato lo Stemma della Repubblica Italiana con intorno la scritta “Medaglia d’Onore ai Cittadini Italiani Deportati e Internati nei Lager Nazisti 1943-1945” e dall’altro il nome e cognome dell’internato o del deportato dentro un cerchio di filo spinato.
Vengono conferite in occasione del 27 gennaio, in occasione della commemorazione della “Giorno della Memoria” in cui abbattuti i cancelli di Auschwitz, i soldati dell’Armata rossa liberarono i superstiti dell’omonimo campo di concentramento, il più esteso luogo di sterminio nazista e il 2 giugno, “Festa della Repubblica”.
Anche se non ci sei più Mario, ecco il nostro regalo per il giorno del tuo CENTENARIO, la MEDAGLIA D’ONORE… l’hanno presa in consegna i tuoi figli Roberto e Rodolfo, sicuramente ne sarai più che contento, anzi ORGOGLIOSISSIMO, e festeggerai insieme alla tua Annita lassù. Auguri piccolo grande uomo ❤️
Questo il pensiero dei familiari, un affettuoso stringersi intorno a questo padre e nonno che per tutta la vita ha offerto con il suo esempio silenzioso, la vera strada dei valori più profondi, quelli umani.
Non ci sono commenti, vuoi farlo tu?
Scrivi un commento