Mani sapienti – Storie di antichi mestieri e di botteghe storiche dei Castelli Romani
L’introduzione di Maurizio Bocci a questo lavoro ampio, complesso, pluriarticolato, è particolarmente interessante per diversi motivi, primo dei quali è l’ottica con cui l’autore guarda i Castelli Romani e la loro storia. A Bocci non interessa soffermarsi sulle bellezze naturali del nostro territorio, “scritture” da aggiornare a causa delle modifiche, non certo positive, fatte attraverso la cementificazione sconsiderata, la deforestazione, l’aumento vertiginoso delle macchine, tanto per citare qualcuno dei danni funesti a un paesaggio invidiato da tutto il mondo. L’autore, attraverso le storie dei contadini, artigiani e piccoli commercianti dei Castelli Romani, ha interesse a dimostrare la profonda identità territoriale delle diverse località castellane e l’importanza del sostegno alle attività tradizionali per preservare l’identità di una comunità.
L’introduzione di Bocci, dunque, si chiude con un monito che segue un’indicazione per il domani: «Se perdiamo anche questa occasione, il futuro dei nostri giovani diventa davvero difficile».
Ora, necessitano alcune considerazioni di ordine generale, tanto per chiarire – una volta per tutte – il concetto di “nostalgia per il bel tempo antico”. Non è che il passato fosse migliore del presente; anzi. Io personalmente, che pure rivivo nei ricordi gli anni della fanciullezza e della gioventù, quando facevo il vignarolo coi miei e l’oste ai Sampàveli, e li rievoco con struggente nostalgia grazie alle strade piene di bambini vocianti e non di macchine in sosta anche sui marciapiedi e tuonanti con le motociclette ovunque; per le giornate interminabili quando c’era il tempo di fare tutto e la fretta perniciosa non logorava i nervi. Bene: io stesso non tornerei indietro un solo anno grazie alle innovazioni scientifiche e le conquiste mediche. Ma per tutto il resto, sì! Ad ogni modo, tacciare di arretratezza e inutilità nostalgica chi rispolvera la storia locale (della quale la Storia generale non tiene conto e non parlerà mai) è fare un torto a chi cerca di fermare la corsa verso la morte e il nulla delle umane avventure. Siano i benvenuti coloro i quali tolgono dall’oblio la persona anonima che ha calcato i selci delle strade prima di noi e il cui ricordo non sta scritto manco più sulla lapide, perché i morti aumentano e il cimitero non basta più, sicché, dopo pochi anni, per necessità si devono cancellare pure le scritte e le foto sulle pietre tombali, per cui, foscolianamente, «involve/ tutte cose l’oblio nella sua notte». E oggi, tempo di sovrapposizione continua degli eventi, delle opere, delle scoperte, dei delitti e delle informazioni in un villaggio globale, ove sincronicamente si sa ogni cosa ma tutto si dimentica, ripercorriamo la vita anonima di chi ci ha preceduti e messi al mondo, alimentadosi dello stesso Sole e dei panorami simili a quelli che la pietà della Natura ancora protegge a dispetto dello sconsiderato agire dell’avidità umana!
Non siamo nostalgici: siamo formiche della piccola storia, dato che la grande ignora l’immensa organizzazione capillare e giornaliera anche degli oscuri eroi di ogni contrada! Il mondo è un’infinita e inestricabile organizzazione, un formicaio disubbidiente ma creativo. E l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro (almeno così è scritto nella nostra altissima Costituzione).
Cosa vuol dirci il presente libro – fruibilissimo – di Maurizio Bocci? Attenzione: egli non pretende di ristabilire i vecchi tipi di artigianato, perché sarebbe impossibile e fuori della realtà. Per esempio il facocchio che potrebbe fare oggi? Il carbonaio? Il carrettiere? O il fascettaro, dal momento che i boschi sono abbandonati alle sterpaglie facili a prendere fuoco? Ebbene, se il maniscalco e il mugnaio non avrebbero senso di ritornare in esercizio, il fascettaro dovrebbe essere d’obbligo. Infatti, i rami secchi, i legnetti etc. del sottobosco, se fossero regolarmente tolti, si darebbe minore occasione ai roghi estivi di cui tanti piromani sono così appassionati in Italia! Ma le strade che ora rombano di automobili, carri, motorette smarmittate, fino a pochi decenni fa suonavano (dico “suonavano”, cioè “cantavano”) coi tipici timbri emessi dagli strumenti di lavoro: falegname, fabbro, calzolaio, serciarolo, bottaio (era una specie di danza pagana ritmata il circolare battere delle mazze sulle doghe e sui cerchioni, fornendo due voci e due tonalità diverse).
Bocci, con il suo gusto equilibrato e vigile, fa i nomi degli artigiani. Vedete: quello che oggi è anonimo (i vestiti nei grandi magazzini, le scarpe già pronte etc.), decenni fa portava la firma degli autori. Prima si diceva: “Ha aperto l’osteria il Ricciaroletto, Trieste, Felicano, Cesare ‘a Svecchia…”; oggi si legge sopra le bottiglie già chiuse la marca, in quantità industriali. Certo, sono nati “mestieri” nuovi e che sanno di prodigio: i conoscitori del misterioso computer, chi ripara i cellulari o le apparecchiature sanitarie e tante eccezionali attività che al tempo dei boscaioli nostrani e dei lumari non c’erano. Cent’anni fa chi avrebbe creduto che nascesse la professione di astronauta? Le invenzioni procedono in misura geometrica; il cervello umano si evolve in progressione aritmetica. A misura di cavallo e di somaro eravamo tutti; a misura di tecnologia molti di meno, per primo il sottoscritto! Chissà se fra un secolo – sempre che l’umanità ci sia ancora sulla ribollente e asfittica faccia del bel pianeta – i nostri pronipoti parleranno delle nostre automobili come noi ora dei muli? Delle imprese spaziali come noi delle prove di volo dei fratelli Wright? Il futuro non esiste, ma si prepara; e siccome il futuro ha un cuore antico, io vi dico con “sfrontatezza” che chi guarda al passato costruisce anche il domani!
In un altro contesto affermavo che Albano è una cittadina fortunata: ha molti cultori, compresi quelli che cercano di “acchiappare il dialetto per la coda” e fermarlo in qualche modo (ma la lingua dei nostri padri interessa a pochi, perché idiomi stranieri incalzano alle porte con la potenza dell’economia, della tecnica, della medicina, per cui bisogna imparare almeno l’inglese se non si vuole uscire di scena). Dunque, una cittadina fortunata, come, in fondo, lo sono quasi tutti i Castelli Romani grazie a chi ha capito che per costruire il futuro – lo ripeto – bisogna girare lo sguardo anche verso il passato. E Bocci ha scelto un settore particolarmente importante, in quanto parla degli uomini (i documenti marmorei e laterizi durano di più nel tempo e possono essere studiati a lunga gettata, mentre le parlate, i lavori tipici, i personaggi, le azioni etc. passano senza lasciare impronta se non c’è chi li registri in qualche modo). Dicevo che Maurizio ha scelto un angolo visuale fervido, andando direttamente alle fonti. È come affermare: sì, i lavori erano questi, ma chi li svolgeva? Si passa dall’astrazione alla concretezza: ecco il segreto del meccanismo narrativo e documentario del nostro studioso. Un libro fruibile da tutti, realizzato con estrema cura, serietà di ricerca e duttilità narrativa.
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