Maleducazione “in versi”
Solo i critici letterari non devono aspettarsi un soldo quando vengono richiesti di un parere da autori sulle loro opere. Pare che debba pagarli lui i “geni” che lo onorano di sceglierlo a loro osannatore (perché il giudizio, come si sa, essi lo aspettano positivo e plaudente).
Ero direttore responsabile di una trasmittente privata – Alba Radio –, molto seguita in quanto all’epoca (45 anni fa) erano rare tali emittenti: ci telefonavano da Roma, dalla Sardegna etc. Coi proprietari, demmo il via a una piccola editrice affiancata alla radio. Non pochi ci proposero le loro opere in lettura. Ma accadde un fatto che va narrato. Un giorno ci arriva un pacchetto contenente un dattiloscritto, perfettamente sigillato, pure con lo spago e i piombi marcati, quasi si trattasse di un’antica preziosa bolla pontificia. Non so come (forse l’Angelo Custode ebbe pietà di me), non aprii l’involucro, il quale rimase pian piano sotterrato dagli altri arrivi (l’Italia è la patria dei poeti, un po’ meno dei santi ormai). Circa un mese dopo, eccoti una raccomandata dall’avvocato di quell’autore. Diceva che noi avevamo venduto il suo libro a un’emittente televisiva nazionale, in quanto in quei giorni stavano mandando in onda una serie ispirata (se non addirittura copiata) al suo romanzo. Portammo il pacchetto ancora sigillato al nostro legale, che scrisse al collega due cose con le quali chiudeva la questione: primo, il testo non era stato esaminato; secondo, in un mese nessun regista realizza e dà al pubblico una telenovela se non ha già il copione e gli attori pronti etc. Lasciammo all’avvocato il “parto” dello scrittore, intonso, ma né lui né il suo difensore vennero mai a ritirarlo.
Nel 1981 l’editore Armando Armando pubblicò “La sagra degli ominidi”. Ed ecco una letteraccia di un’autrice, la quale aveva descritto le osterie di un paese del Tuscolano, accusandomi di averle rubato le idee e di averla copiata in certi punti. In realtà, c’erano delle somiglianze fra il mio libro e il suo che era stato edito due anni avanti, però lei non sapeva che la prima edizione di “La sagra degli ominidi” era uscita nel 1972 con una piccola editrice, molto agguerrita. Quindi… forse era stata lei a copiare diverse cose a me, oltre l’idea generale.
Quest’altra potrebbe sembrare una mia invenzione. Sotto Natale, a un centro di cultura in zona Trastevere in Roma, il presidente mi presenta un filosofo, tutto curvo e umile. Costui desiderava un mio giudizio sull’ultima sua opera inedita. Tanto fui pregato dal mio amico, che dovetti accettare obtorto collo. Era un tomo dattiloscritto a spaziatore uno, fitto fitto, di ben 750 pagine! Mi sarei giocato le vacanze natalizie. Però, leggendo le prime righe, mi accorsi che “non eran da ciò le proprie penne”. Non ho la struttura mentale del filosofo sistematico. Pensai di affidare la lettura a un collega di “sventure”, autore di testi filosofici (lavorava nel mio stesso ufficio-stampa). Verso la metà di gennaio, il mio amico mi chiama per consegnarmi la sua attenta disamina del ponderoso testo. Negativa, naturalmente. Era regolare ogni cosa: che avrebbe avuto da ridire l’autore? Così scesi appositamente a Roma (e chi fa il pendolare sa cosa significhi!), consegnai al presidente il volume ed egli disse: “C’è qui l’autore, l’ho avvertito della tua venuta”. Bene. Noi due di qua e il filosofo di fronte a noi. Apre la lettera, legge, si rabbuia in viso e poi, con uno scatto fulmineo degno di un olimpionico, sferra un manrovescio diretto a me. Un intuito animalesco mi portò a prevedere la scena: chinai la testa quel tanto da sfuggire all’uragano, che colpì in piena guancia sinistra il presidente. Un boato. Gli occhiali volarono in aria e il poveretto cadde come spinto da un ariete di medievale memoria. L’offeso autore sparì in un attimo. Il mio amico si riebbe con minore velocità, e dal naso gli usciva un rivoletto di sangue. Ricordai allora di aver letto che, quando ancora non ero nato, un autore del profondo Sud, avendo visto una recensione negativa su un suo parto recente, si partì dal tallone della Penisola, giunse a Milano, rintracciò il critico malevolo, gli ingiunse di togliersi gli occhiali (che delicatezza da poeti!) e gli mollò un ceffone divenuto storico. Aveva ragione Orazio nel definire ombrosa la schiera dei Vati. E aveva capito tutto un maestro di critica letteraria, il quale rispondeva a ognuno che gli mandava un libro, scrivendo: “Mi creda: un’opera come la sua non l’ho letta mai”. Era la verità: lui non leggeva nulla, ma si faceva amici i “creatori” perché loro interpretavano la frase sibillina così: “Mai ho letto un capolavoro come il suo”.
Un altro Vate, il quale era anche un collega di scuola, aveva quest’altra mania: ogni settimana, puntualmente, si recava alla SIAE a Roma per depositare, sotto pagamento, le sue novità letterarie, pure gli appunti, le lettere spedite a chicchessia, un’idea appena abbozzata: nel timore ossessivo di essere plagiato. Compulsivamente leggeva ogni novità possibile per scoprire eventuali furti. Dormiva appena due ore la notte, preso da quella fissazione che gli rovinava i giorni. Quante volte mi bloccava nei corridoi scolastici per sfiatarmi all’orecchio che qualcuno lo spiava mentre scriveva!
Una poetessa, invece, la quale mi aveva preso a servizio completo chiamandomi sempre a presentarle le innumerevoli sillogi che pubblicava ogni tre mesi, mi tolse il saluto quando, bloccato a letto da un febbrone da cavallo, non potei andare a Bologna a incensare la sua ultima fatica. E pensare che a costei avevo dato in omaggio un mio libro, che non lesse mai, dicendo: “Il tempo è prezioso”. Naturalmente solo il suo di tempo.
Qualcuno potrebbe giustamente criticarmi: chi te lo faceva fare? Avrebbe ragione, però io ho preso da mio padre, il quale non riusciva a dire di no a nessuno e si precipitava quando gli chiedevano un favore. Quanto ho invidiato e ammirato mia madre, la quale diceva dei “no” netti! Ma chi nasce quadro, non può morire tondo.
Un giorno, tornando da Firenze col treno (tanti anni fa occorrevano quattro ore contrariamente all’ora e venti di oggi), leggendo tutti i giornali che avevo comprato alla stazione, mi capitò di gustarmi un articolo di Giuseppe Prezzolini (ingiustamente e volutamente dimenticato) sulla terza pagina di “La Nazione”. Pareva scritto per gli incapaci a dire di no: parlava di come ogni professionista si facesse pagare per un consiglio, una visita, una lettera, un consulto, un ascolto (lo psicologo), così come il padrone di casa quando riscuote l’affitto, e il pizzicagnolo, il barbiere amico, l’oste etc. Solo i critici letterari non devono aspettarsi un soldo quando vengono richiesti di un parere da autori sulle loro opere. Pare che debba pagarli lui i geni che lo onorano di sceglierlo a loro osannatore (perché il giudizio, come si sa, essi lo aspettano positivo e plaudente).
Concludo questa breve carrellata con due ricordi (ma ce ne sarebbero tanti da riempire un volume). Una casa editrice mi inviò il libro fresco di stampa di una scrittrice del Nord. Lessi il testo, mi piacque a dire il vero, lo recensii e, in un giorno di agosto, in un caldo infernale, scesi a Roma (a quei tempi non era di largo uso il computer) per consegnare al caposervizio della pagina letteraria di un quotidiano nazionale al quale collaboravo, le tre cartelle da me scritte. Il redattore storse le labbra, dicendomi di tagliare qualche riga, per far entrare, il giorno dopo, la recensione nella pagina che stava componendo. Uscì su tre colonne, al centro. La casa editrice mi ringraziò. Telefonai alla persona interessata, la quale si precipitò a comprare il giornale. Non mi chiamò al telefono, ma due giorni dopo firmai la ricevuta di una raccomandata: la sua, nella quale non solo non c’erano i ringraziamenti, ma vi si diceva che il titolo era riduttivo (i titoli non li fanno i recensori ma il caposervizio), che erano solo tre colonne, ma soprattutto che il suo nome nel sottotitolo non era abbastanza grande come la sua importanza richiedeva!
E pensare che è così difficile avere una recensione! Ma così va il mondo delle lettere e poveretto chi deve conviverci!
Chiudo. Fui invitato all’ascolto della lettura di poesie d’un Vate allora molto in voga e adesso completamente dimenticato (“Oh vana gloria delle umane posse” dice Dante). Un club di Roma, in un vicoletto buio e maleodorante. Trenta sedie piene e una decina di persone in piedi, compreso il sottoscritto. Mi meravigliai, in quanto venti presenze sono in media il massimo che si possa desiderare in questi tipi di serate (e spesso gli amici sono costretti da insistenze varie a sopportare tale sacrificio). Bene. Dopo una lunga presentazione che descriveva il poeta come il più grande del Novecento, da candidarsi al Nobel, il Vate inizia a leggere le sue liriche, ma, dopo un po’, si alza un energumeno accigliato, torvo, il quale si dirige alla cattedra e dice perentoriamente: “Adesso leggo io!”, e comincia la tiritera senza essere invitato. Di lì a poco, il personaggio centrale della serata, giustamente, protesta. Allora, una donna si alza dalla sedia e urla: “Se ha letto lui che non c’entra niente, leggo pure io! Nessuno è inferiore a nessuno!”, e comincia con una voce acutissima da sfondare i timpani a recitare a memoria un suo poema, mentre l’intruso seguitava a declamare i suoi versi. Allora si levò all’unisono un coro di poeti-dicitori e fu il caos. Non so come finì, perché me la detti a gambe, imbucandomi in un bar di rinomata bravura nel fare il caffè, mentre il televisore mandava in onda un cantautore sommerso dagli applausi di una folla immensa. Venne a piovere. Stavo senza ombrello. Fu giocoforza che sorbissi un’altra bevanda nera fortissima, deliziosa, lasciandomi trasportare, senza volontà, dai boati che precedevano e seguivano i tuoni degli altoparlanti nell’arena impazzita…
Ben detto e molto molto divertente