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Magia e jettatura nella filosofia contemporanea

Magia e jettatura nella filosofia contemporanea
Ottobre 10
22:00 2010

jettaturaLa polemica contro le superstizioni è stata uno dei cardini della forza razionalizzatrice dell’Illuminismo. La crisi delle credenze magiche – che trovano i loro strascichi in forme evolute inserite nel pensiero greco e nella predicazione evangelica – ha costituito il passaggio dalla magia “demonologica” medievale a quella “naturale” del Rinascimento. Le denunce contro il ritualismo cattolico da parte dei protestanti (i quali consideravano la transustatazione un rito magico e non religioso) o la “caccia alle streghe” sono testimonianze di quella crisi simbolica delle credenze filosofico-religiose che ha accompagnato la nascita della Modernità.

La magia, secondo Ernesto De Martino (il filosofo considerato come il fondatore dell’etnologia italiana) non è affatto scomparsa con lo sviluppo delle scienze, né tanto meno con l’età dei lumi. Il retaggio del magico, spiega lo studioso in Sud e magia (testo del 1948) sarebbe traslato nei rituali religiosi, come dimostrano per esempio alcune “vistosità” ancora presenti nel cattolicesimo napoletano. Il vero compromesso tra magia e razionalità, nel meridione, andrebbe ricercato nell’ideologia della “jettatura”: una disposizione psicologica tra il serio e il faceto, la scrupolisità e lo scetticismo, che ha influenzato tutti i piani della vita sociale e che, contrariamente a quanto si crede, non ha un’ origine popolare ma colta. Infatti, la jettatura, come scienza e non semplice credenza, nasce proprio a Napoli, nel XVIII secolo, a causa di condizioni sociali e culturali del tutto particolari. Facendo un passo indietro, che la si chiamasse “fascinazione” o “effluvio negativo”, la “Jella”, già prima di allora, era stata considerata un fenomeno fisico, appartenente al modo naturale e, in quanto tale, spiegabile attraverso le leggi della natura. Tommaso Campanella, in Del senso delle cose e della Magia (libro IV cap.14), a proposito del “malocchio”, afferma che esso è come il basilisco che «con la vista uccide, poiché ardenti e velenosi spiriti da lui escono quali con occhi et fiato bevemo». Una spiegazione naturalistica, nei capitoli successivi, verrà data anche per giustificare l’esistenza di un effluvio malefico, composto da particelle invisibili all’occhio umano, che scaturisce dal fiato delle streghe e che, in Campanella come in altri autori suoi contemporanei, viene associato al meccanismo di diffusione delle epidemie. In epoca illuminista, durante la peste del 1656, mentre a Milano e in altre zone italiane si darà la colpa alle polveri “magiche” sparse dagli untori, proprio a Napoli, un’accusa simile non troverà alcun credito presso la Deputazione della Sanità e i magistrati: le malattie avranno pure delle cause naturali ma, come una serie infinita di disgrazie, è sempre la jella a provocarle! L’atto di nascita della “Jettatura”, come ideologia fondata, è esclusivamente napoletano. Anche Vico (ne Il solitario) poteva dichiarare di sentirsi “napolitanamente oppresso” a causa di tutte le disgrazie che lo colpirono. Ma, malgrado le analogie culturali e letterarie con altre forme di maleficio, la jettatura ha una natura speciale, forgiata da un universo storico e sociale a sé, che, “sospeso tra l’acquasantiera e il mare” – spiegano Croce e De Martino – è quasi del tutto impermeabile alle spinte razionalistiche provenienti dalla Francia e dall’Inghilterra. La jettatura è un’idea che si origina dallo stridore tra ragione, pessimismo e rassegnazione, con l’affermarsi contemporaneo del concetto di “Provvidenza”. Quella del Mezzogiorno, scrive Benedetto Croce, è una “non-storia”: un processo che non è un processo, perché ad ogni passo è sconvolto sistematicamente da un evento particolare che interrompe quel progresso che in altri comuni e signorie era stato innescato dall’energia delle formazioni politiche, dalle lotte per la libertà, dai commerci e dalle navigazioni, dalle comunicazioni, dalle colonie, dalle arti. Croce sottolinea che il Sud aveva partecipato in maniera irrilevante alla fioritura culturale rinascimentale (se si escludono i contributi di Bruno e Campanella), perché, mentre nascevano società dedite al commercio e all’industria, i continui contrasti napoletani portavano ad altrettanti continui contrasti istituzionali, a particolarismi, e alla conseguente discesa del regno verso la catastrofe. Finché durò, il dominio spagnolo ebbe in qualche modo la capacità di controllare i baroni e impedire che la corruzione, il crimine e le ingiustizie delle classi dirigenti gravassero sulle sorti della gente povera e semplice. Oltre le spiegazioni storiche crociane però, questo sistematico, continuo, storico manifestarsi del negativo, di avvenimenti che inevitabilmente, anche se positivi all’inizio, sono destinati ad un epilogo sfortunato, convinse la città ad identificarsi col suo destino così originale e stranamente contrario al normale progresso e alla logica comune. La jettatura divenne allora un male personificato attraverso la figura dello jettatore. Egli è un individuo che involontariamente e sistematicamente introduce disordine nella sfera morale e sociale, destinato a far andare in questo modo le cose. Lo jettatore solitamente apparteneva alla classe notarile, nobiliare o del clero: un giudice, un notaio, un avvocato, ma anche un insegnante, come se il suo “portar male” potesse in qualche modo dare senso ai taciti guasti di un sistema politico e amministrativo ingiusto e iniquo. La richiesta di protezione psicologica ad amuleti, preghiere e scongiuri, mostra i limiti del pensiero illuminista napoletano.
La costruzione della figura dello jettatore non fu codificata dalle classi subalterne ma dai letterati. Nicola Valletta, allievo del Genovesi e docente di diritto civile all’Università di Napoli, nel 1787 scrisse una Cicalata sul fascino, volgarmente detto jettatura, che, a differenza della spiegazione demonologica data dal Della Porta nel 500 e dell’impronta naturalistica di Bruno e Campanella, per la prima volta, parla del fascino con un tono semiserio. Con l’aria di chi ci crede solo per finzione letteraria, secondo Croce. Col tono di chi intraprende una battaglia inesauribile con la propria ragione, per spiegarsi i motivi delle tante disgrazie che colpiscono la propria famiglia, secondo De Martino. La figlia del Valletta, è scritto, sarebbe morta a causa di uno sguardo invidioso, e uno jettatore avrebbe fatto fallire il tentativo del padre di chiedere un congedo straordinario all’Università per poter accudire l’inferma. Per Croce, la morte della bambina è una nota autobiografica “stridente letterariamente” col tono della cicalata. Ma De Martino, in questo scrupoloso decalogo analitico di cause e conseguenze, che stila un esatto identikit dello jettatore, dei rimedi contro la jella, dei comportamenti da evitare se non si vuole esserne colpiti, legge invece lo stridore tra la coscienza razionale acquisita con l’illuminismo e una coscienza culturale inferiore, non superata, secondo la quale tutto va storto con una sistematicità tale da costituire il rovescio del mondo illuminato. Un rovescio nel quale, non solo le vittime ma, anche gli artefici (gli jettatori) sarebbero succubi della negatività. Il tono della cicalata nasce quindi dalla mancata soluzione di questo contrasto e dalla natura del compromesso tra due atteggiamenti mentali e le disposizioni d’animo. L’ironia, nel momento in cui svaluta le vecchie credenze, le riafferma nel presente come condizione perennemente irrisolvibile. Anche il re Ferdinando I, in punto di morte e in preda all’agonia, abbandonò la sua aura austera e aristocratica per urlare: “m’hanno jettato!”.
Ferdinando II, riporta il De Cesare, era fissato con l’idea che il duca di Ventignano portasse jella, così come si vociferava nel comune di Ascoli. Per molto tempo il sovrano riuscì ad evitare il malnominato, ma quando i suoi obblighi istituzionali lo costrinsero a ricevere a corte il presunto jettatore, fece sospendere tutte le feste da ballo future per precauzione. Poco dopo quella visita, il re morì e la festa nuziale di suo figlio dovette essere sospesa a causa del lutto. I travagli dei 15 mesi del regno di Francesco II furono tali e tanti che alla fine, lo stesso regno crollò. Sempre il De Cesare trova delle analogie storiche tra gli eventi capitati allo sfortunato sovrano e il suo incontro con presunti jettatori. La circostanza dimostra che l’idea della jettatura era filtrata anche nella mente degli storici. Infatti, dopo la visita del duca di Ventiniano, Ferdinando II dovette recarsi in Calabria per le nozze del duca di Calabria con Maria Sofia Amalia di Baviera. Si narra che all’uscita dalla reggia di Caserta, due frati cappuccini gli augurarono buon viaggio, facendogli un inchino: quel viaggio, oltre ad essere stato pieno di peripezie, per il sovrano fu anche l’ultimo. Per quanto religioso fosse, Ferdinando II annoverava i frati cappuccini fra gli jettattori che, come da tradizione, includevano anche calvi, uomini dai capelli rossi, vecchie con la bazza e guerci.
Il Muratori, già nel 1745, in Della forza della fantasia umana, polemizzava contro ogni forma di magia, stregoneria e malefizio bollandoli come fantasie di gente rozza e credulona, poiché -spiega – sarebbe troppo infelice il genere umano se esistesse chi, con il solo sguardo invidioso, potesse causare danno a un’altra persona. Invece il Valletta, in contraddizione con le idee illuministe, proponeva l’istituzione di vere e proprie scuole che addestrassero a riconoscere e a difendersi dagli jettatori, esibendo in questo modo la sua ferma convinzione dell’esistenza della jettatura. Sarà solo in epoca romantica che il concetto di magia e stregoneria come potere o dono diabolico scomparirà del tutto, regredendo completamente nella sfera psicologica e delle passioni umane, manifestandosi solo nel linguaggio letterario e nei modi di dire: ancora oggi si parla infatti del “fascino delle donne”, di “due occhi che stregano”, nonché di quel lato oscuro e spesso “diabolico” dell’animo umano. Resiste quel conflitto irrisolto della razionalità, esemplare in Valletta: quel famoso “non è vero ma ci credo”, ereditato nei secoli da culture, tradizioni ed esperienze quotidiane, che, secondo le parole di De Martino, rappresenta quella “forma di immodificabile irrazionalità” che riemerge ogni qual volta, per superstizione, incoerenza o incertezza, si attribuisce a casi particolari (un esempio attuale è quello di evitare di essere in 13 a tavola, come nell’ultima cena di Gesù) la causa di disgrazie che si verificano successivamente e che si giustificano sempre associandole a vari ed eventuali incontri coi simboli del malaugurio.

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