Ma che colpa abbiamo noi
Associazione Teatrale dell’U.V.A. – regia di Ursula Mercuri
Non capita sempre, a teatro (ma la cosa si può spostare anche nel cinema, nella lettura e nella musica) di divertirsi e insieme riflettere, attratti per due ore di seguito, senza un momento di stanchezza, sia dall’opera sia dagli attori. Personalmente – e mi trovo in imbarazzo a confessarlo – amo la lirica, il nostro faro nel mondo, il cinema e poi, a una certa distanza, il teatro: fonte antichissima e primaria di espressione. Dico ciò per dare maggiore credibilità all’apprezzamento totale della commedia (assai brillante e non meno amara) intitolata “Ma che colpa abbiamo noi”, che Ursula Mercuri, la regista, ha scritto traendola liberamente da un testo di Roberta Skerl (originariamente si chiamava “Questi figli amatissimi”).
La rappresentazione si è realizzata al teatro Gian Lorenzo Bernini di Ariccia nelle serate del 24 e 25 ottobre da poco trascorso.
Un pienone. E fin qui nulla di nuovo, dato che il pubblico torna alle “antiche usanze artistiche” abbandonando un poco la televisione. Quello che non succede spesso, invece, è la bravura degli attori e la bellezza del testo, la sua profondità di vedute, l’attualità non legata alla cronaca ma ai problemi eterni dell’uomo, la sapienza di fondere il sarcasmo, l’ironia con l’amarezza della realtà (mi viene in mente il famoso detto: “Castigat ridendo mores”). Tutti questi ingredienti Ursula Mercuri (la quale ha alle spalle altri successi) li ha saputi fondere insieme, in un equilibrio sapiente, meditato, che non ha mai sforato la misura dell’umorismo e del dramma, restando in una splendida via di coesione dai risultati assai sorprendenti: e non esagero.
Dunque la trama è intensa e riguarda i rapporti interni ad una famiglia, che diviene il prototipo di tante famiglie, assillate da problemi di ordine economico, dai rapporti con i figli (in questo caso con due figlie un po’ viziate, gelose l’una dell’altra, coccolatissime da entrambi i genitori, un poco pazzerelle per la loro vita disordinata e molto “modernamente etica”): i due genitori (Walter Gizzi e Veruska Valeau) si rimproverano a vicenda, con piglio frizzante e drammatico allo stesso tempo, le debolezze verso le figlie e si ripromettono di rimproverarle finalmente, ma una serie di circostanze li porta a comportarsi comunque generosamente verso di loro. C’è il contrasto dei sentimenti pensati ed espressi, l’intromissione di un amico comune, vicino di casa, che alla fine combina un guaio con una delle ragazze mettendola incinta; c’è – ed è fondamentale – l’amore familiare, una catena che distorce la realtà portando conseguenze importanti (non posso rivelare il finale, il quale è un colpo di scena a sorpresa, triste sorpresa, che lascia meditare sui casi umani e le loro defraudazioni verso chi si comporta meglio degli altri: contraddizione del vivere e della società, dei moti primi dell’animo e dei rapporti umani).
Il dialogo è sempre serrato, a doppio senso, in un gioco di rimandi e di battute sagaci, dal riflesso morale non esplicitato dalle parole, ma reso evidente dai fatti. Insomma, una riuscita piena, che dovrebbe avere ancor più successo (ma lo sappiamo tutti che spesso le cose belle rimangono al margine della popolarità, anche mercè l’appiattimento culturale operato dai forti influssi dei mass-media). Vanno citati per la loro bravura scenica gli altri attori: Chiara Casali, Chiara Postacchini, Gian Luca Rossi, ma la parte dominante, il centro, il fulcro intorno al quale ha girato lo spettacolo (oltre il bravissimo Walter Gizzi) è stata la formidabile interpretazione di Veruska Valeau, al compimento della sua maturità artistica.
Scritto da Aldo Onorati
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