L’urlo e il sorriso – Enrico Campofreda – Marina Monego
Quello di Enrico Campofreda e Marina Monego è un esordio narrativo a quattro mani dove vengono ripercorsi, con estrema lucidità e dovizia di particolari, i sentieri dell’infanzia. Meglio, forse, non avrebbero fatto in quella terza età caratterizzata dalla repentina esplosione di così tanti dettagli legati ai primordi. Racconti brevi, strutturati con semplicità ed efficacia, non del tutto estranei a talune ricercatezze e che comunque scorrono, fluidi e disarmanti, nella consunta poetica di spontanee ingenuità perdute, sempreverdi memorie radicate. Fuoriesce, inevitabilmente, quel bel paese ancora arrangiato e che già subiva il travaglio di profonde trasformazioni in corso. Ritratti in bianco e nero, istantanee neorealiste carpite da uno schermo, quello della memoria, dov’è ancora palpabile quello sfondo sociale vincolato ad interagire coi destini dei protagonisti. L’automobile, la TV, il frigorifero, i nuovi quartieri che sopravanzano: sono gli anni del boom economico, cementano Celentano e la via Gluck. Lo scenario di campagna e di città si alterna facendo da cappello ai titoli dei singoli episodi che si susseguono. Inconsulte e altrettanto innocenti riemergono passioni per le lucertole, corse alla marrana, un fragrante schiamazzo di borgata, strade sterrate, biciclette e lambrette. Venezia e l’entroterra, insieme alla periferia romana, sono i luoghi d’azione nonché di origine degli stessi autori. In una corsa nei campi, dove svetta alto il mais in un’antropomorfica visione di bambine, si svela un sapore antico, quello del Veneto contadino, che ancora sussiste attraverso i suoi riti, propiziando nuove stagioni in un immenso falò. Dietro lo sguardo di un bambino silenzioso, c’è lo scorcio di una laguna colto con nostalgia, un castello di sabbia “ancora intatto”. Del resto, la nota di quarta di copertina relativa a Marina Monego, conclude precisando che “a Venezia è rimasta affezionata e vi ritorna sempre volentieri”. Aneddoti di scuola ci lasciano in una coda di suoni, sono quelli della Gigliola Cinquetti che canta “Non ho l’età”. Forse sarà stato anche per via di quel festival simbolo nazionale, dove spopolò nel ’64, che si confondono “cinguettii” con “cinquettii”. La televisione imperversa e diviene “simbolo di quegli anni” operando una “omologazione culturale”, come precisa Arace nella sua prefazione. Tra bighellonate, giochi ed altre esperienze, si finisce nel gelo del fossato o si osa, infrangendo il tabù materno dell’imbarcadero. Meloni rubati a ferragosto, approfittando della festa in corso, in una campagna che vede il contadino erigersi a piccolo proprietario, retaggio di un’ancora non troppo lontana riforma agraria. Spesso si fa ricorso al dialetto nei dialoghi, soprattutto il gergo romano di periferia, ma non mancano neppure più melodici accenni di filastrocche venete. Ghiaccio bollente è un episodio che riporta ancora in pieno a quel clima più prossimo al dopoguerra piuttosto che di sviluppo, è il ritmo di una campagna che serenamente stenta nel mettersi al passo coi tempi. In Areniade la periferia si misura “dalla strada al mondo”, Valle Giulia e gli studenti in rivolta iniziano a fomentare dubbi, ma il cuore pulsa altrove, è tutto rivolto verso le olimpiadi di Città del Messico che i ragazzi, di lì a poco, si appresteranno ad emulare. Sesso e religione, insieme ad una motoretta, perno di una rocambolesca gita al mare, costituiscono una possibile trilogia assemblante il finale. Sudate iniziazioni dispensano, come premio, la riluttante visione di cosce smagliate e cadenti, mentre il chierichetto ci ricorda quanto sia teatrale la messa e, tutto sommato, tanto vale parteciparci da protagonista. Un’edizione ben curata, una piacevole lettura assicurata. Nodi narrativi a tratti stereotipati, ma mai noioso. Questo è senz’altro un esordio che segna il passo, osa poco, ma si presenta come un prodotto compiuto, capace di aprire a future e più consistenti produzioni sempre che, i rispettivi autori, siano anche in grado un po’ più di esporsi.
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