Lucio Anneo Seneca: Epistulae ad Lucilium – 2
Secondo Seneca gli esseri umani sono chiamati a perseguire una meta superiore, cioè Dio, e la vita è preparazione alla morte, non intesa, però, come drammatica conclusione dell’esistenza, ma come nascita in una nuova dimensione; l’idea di morte è per gli “stoici”, ai quali Seneca appartiene, uno stimolo di vita in quanto morte e vita sono due momenti che si integrano e giustificano a vicenda. L’uomo, per condurre una buona vita, deve innanzitutto vivere secondo natura, essere introspettivo ed individuare i valori etici indispensabili, quei beni necessari a creare nell’anima la disposizione al bene.
Successivamente passerà ad una tenace applicazione delle verità etiche alla vita pratica e, in una tappa successiva, amplierà il proprio orizzonte colloquiando con gli altri. Lo Stoicismo cui si rifò l’autore latino si originò tra le cerchie di intellettuali a partire dal 155 a.C. ad opera di Diogene di Babilonia e in seguito di Crisippo, Ponezio da Rodi, Posidonio e Antipatro. Tale dottrina era caratterizzata da un rigorismo morale e crociate contro passioni, piaceri e lusso; Seneca, pur restando fedele alle basi dello stoicismo, ripudia i suoi eccessi, attingendo anche dalla filosofia epicurea, diametralmente opposta a quella degli stoici. Gli epicurei non volgevano lo sguardo al trascendente e miravano ad una felicità tutta terrena, negando l’esistenza della divinità o sostenendo che essa non si interessi delle umane vicende; l’epicureo non si lascia condizionare da concezioni metafisiche o religiose che impongono doveri e limitano la libertà umana e il godimento della vita. Su questo punto, tolto l’accento sul piacere, l’Epicureismo si avvicina allo Stoicismo. Gli aspetti qualificanti della filosofia senecana sono: la fede nell’uomo; lo spirito di tolleranza; l’umana comprensione degli errori propri e degli altri: il senso di solidarietà sociale che si estende a tutti gli uomini, oltre ogni differenza di razza, religione e rango; l’avversione per la violenza gratuita, in particola modo verso i ludi gladiatori e la guerra; il concetto di tempo come unico vero possesso di cui l’uomo dispone e il concetto di morte, concepita come il coronamento di un’esitenza vissuta all’insegna della saggezza. Il filosofo parla anche di Dio, riferendosi a Lui con l’espressione Parens noster, che significa letteralmente “Colui che ci ha generati”; dunque nella sua visione gli uomini sono figli di Dio ma quel “Parens” deve essere inteso non tanto come Dio creatore secondo la concezione giudaico-cristiana di Dio che crea l’uomo a propria immagine e somiglianza, quanto piuttosto come causa prima in senso platonico.
Non pochi sono i punti di contatto tra il pensiero di Seneca e la dottrina cristiana; tuttavia, egli non può essere definito pienamente cristiano per un semplice motivo: manca infatti nelle sue Lettere e in ogni altro suo scritto filosofico il concetto di speranza cristiana e la fede nella Redenzione; anche se, a suo parere, Dio si occupa delle sue creature, lo fa stando aristocraticamente distante e pertanto non vi è l’evento rivoluzionario dell’incarnazione di un Dio che va verso gli uomini. In quest’ottica il raggiungimento del bene supremo non ha bisogno della Grazia, bensì si fonda sulla sola capacità di rigenerazione morale intrinseca all’uomo. Un altro tema affrontato dal filosofo è quello del suicidio la cui accettazione segna un ulteriore divario tra Seneca e il Cristianesimo; il suicidio non è però da lui accettato in modo acritico, indiscriminato, ma soltanto come mezzo estremo nel caso di situazioni irrimediabili che mettono a dura prova la moralità e la dignità dell’uomo, compromessa, ad esempio, da un male incurabile. In altre occasioni, per Seneca è invece doveroso verso i propri cari richiamare, seppur a costo di sofferenze, il soffio vitale e trattenerlo, dal momento che l’uomo per bene deve vivere non quanto più a lungo gli piace ma finché ne valga la pena. Seneca stesso, negli anni giovanili, tormentato da cattive condizioni di salute e in preda ad una grave depressione, meditò di togliersi la vita astenendosene per amore del vecchio padre. C’è un solo aspetto che accomuna Seneca al Cristianesimo: il ripudio della schiavitù, proprio come i primi cristiani rifiutarono la liceità giuridica della schiavitù. Gli schiavi non sono dei nemici, afferma il filosofo, ma lo diventano per il modo in cui vengono trattati e, per argomentare questa sua profonda convinzione, egli preferisce non parlare della crudeltà che fa trattare i servi come fossero bestie- cosa che lo condurrebbe a discorsi molto più complessi –ma preferisce soffermarsi su esempi di quotidiana iniquità dei padroni verso i servi, adibiti alle più degradanti mansioni. Egli, nel riconoscere apertamente i diritti umani degli umani degli schiavi e l’iniquità giuridica e morale della schiavitù, restituisce al servo, sulla base del diritto naturale, quella personalità giuridica che gli viene negata dal diritto positivo. Seneca consiglia a Lucilio di non giudicare un servo in base all’umile lavoro che svolge, ma in base alla sua moralità in quanto i mestieri li assegna il caso mentre la moralità di ciascuno dipende da lui stesso; pertanto si dovrebbe ammetterli alla propria mensa, alcuni perché ne sono degni, altri perché diventino tali e quel che in essi c’è di servile per la loro bassa condizione sarà corretto dalla compagnia di persone più educate. Tutto ciò porterà lo schiavo ad avere un sentimento di riverenza verso il padrone, piuttosto che di paura, poiché chi è oggetto di riverenza, continua Seneca, è anche amato e l’amore non può coesistere con il timore. Il poeta conclude l’esortazione a Lucilio sostenendo che la virtù ha il vantaggio di piacere a se stessa e di conservarsi sempre tale, mentre il vizio è capriccioso, muta spesso e non ricerca il “meglio”, bensì il “nuovo”. Solo cinque secoli più tardi i giuristi romani accolgono il principio morale della sapienza stoica e riconoscono la servitù come una costituzione del diritto delle genti contraria al diritto di natura.
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