Luce e visione, un binomio (quasi) perfetto
Tutte le forme di vita sulla Terra hanno sviluppato diversi metodi per utilizzare la luce visibile, nel corso del processo di evoluzione. Piante, batteri, occhi, tutto funziona in modo da trasformare la luce in qualcos’altro. Nel caso di piante e batteri, la luce fornisce l’energia necessaria a realizzare importanti reazioni chimiche attraverso il processo di fotosintesi (per inciso, la fotosintesi agisce anche nell’uomo, quando la luce solare trasforma un composto prodotto dal nostro fegato, il deidrocolesterolo, in vitamina D). Negli organismi superiori, gli occhi trasformano la luce in reazioni chimiche che generano impulsi nervosi inviati al cervello, in modo da rivelare rapidamente i cambiamenti che avvengono nei dintorni: un pericolo, una preda, un riparo, cibo. Informazioni essenziali per sopravvivere. Si capisce, quindi, come la selezione naturale abbia perfezionato, in milioni di anni, i sistemi di rivelazione e uso della luce. Due esempi di questa ‘evoluzione verso la perfezione’ sono la visione binoculare (da due occhi) e la densità di fotorecettori sulla retina. Gli occhi di molti animali, uomo compreso, sono posti ad una distanza più di dieci volte maggiore della dimensione della pupilla (diametro di ingresso della luce nell’occhio). A causa di questa distanza, ciascun occhio vede un’immagine un poco diversa da quella dell’altro occhio: il cervello utilizza la somiglianza delle due immagini per fonderle, e le lievi differenze per ricrearne lo spessore. Il risultato di questa prodigiosa ricostruzione è la visione tridimensionale, che da informazioni sulla distanza dell’oggetto osservato. La visione binoculare è quindi essenziale per valutare l’imminenza di un pericolo o la lontananza di una preda: in altre parole, è importante per la sopravvivenza. Il mitico ciclope Polifemo, anche se non fosse stato accecato, avrebbe trovato difficoltà a catturare Ulisse e i suoi compagni con un solo occhio.
Ancora più sorprendente è l’esempio della densità dei recettori di luce sulla retina. Con una formula ben conosciuta nei libri di ottica, si può dimostrare che la minima distanza media per la quale si possono distinguere due segnali luminosi sulla retina è di circa 2,4 millesimi di millimetro. Di conseguenza, la massima densità media di punti distinguibili sulla retina è pari a 16,7 milioni di punti per centimetro quadrato. Ebbene, la densità di recettori sensibili alla luce al centro della retina è pari a 16 milioni per centimetro quadrato! Di fronte a un simile risultato, o si pensa ad una coincidenza, a un caso fortuito, oppure bisogna ammettere che Madre Natura ha fatto le cose alla perfezione, mettendo il numero di recettori giusto: un numero maggiore sarebbe stato inutile (non avrebbe migliorato l’acutezza della visione) mentre un numero inferiore avrebbe portato una visione insufficiente, o comunque migliorabile. Cerchiamo di capire come funziona il meccanismo della visione, almeno per sommi capi. La parte fotosensibile dell’occhio è la retina, una membrana formata (dall’esterno verso l’interno) da uno strato pigmentato (melanina, che impedisce alla luce di essere riflessa indietro), da uno strato di recettori sensibili alla luce (chiamati, a causa della loro forma, ‘coni’ per la visione diurna posti al centro, e ‘bastoncelli’ per la visione notturna posti in periferia) connessi con diversi strati di neuroni. Infine, le cellule neuronali confluiscono nelle fibre del nervo ottico, e da qui al cervello.
Quando un raggio di luce giunge sulla retina è assorbito da due proteine che circondano i recettori, la rodopsina (sui bastoncelli) e la iodopsina (sui coni). La luce assorbita provoca una serie di reazioni chimiche che modificano la struttura delle due proteine: il risultato finale è che si chiudono i canali usati dallo ione sodio per entrare all’interno del cono o del bastoncello. Ne segue un accumulo di ioni all’esterno del recettore, che produce una polarizzazione elettrica positiva che si propaga fino al neurone dove genera un impulso nervoso che si propaga alle fibre del nervo ottico. Riassumendo in poche parole, un raggio di luce provoca una serie di reazioni chimiche nella retina che producono un eccesso di carica elettrica, rapidamente trasmessa al nervo ottico.
Nella zona centrale della retina ad ogni cono o coppia di coni corrisponde un neurone, mentre nelle zone periferiche diversi bastoncelli sono connessi allo stesso neurone che quindi trasmette la somma dei tanti segnali nervosi ricevuti. Il fatto che la carica elettrica di tanti bastoncelli si somma in un solo neurone spiega perché la visione notturna (con pupilla aperta, che interessa anche la zona della retina dove si trovano i bastoncelli) è più sensibile: la somma di tanti segnali permette di vedere con scarsa illuminazione. Allo stesso tempo, è meno dettagliata e precisa di quella diurna nel riconoscere forme e contorni: infatti, i segnali provengono da un gruppo di bastoncelli, cioè da un’area della retina invece che da un punto preciso.
Tornando al viaggio del nostro raggio di luce, eravamo rimasti all’impulso nervoso trasmesso alle fibre del nervo ottico. Le fibre del nervo di ciascun occhio si dividono a metà per raggiungere due zone del cervello (corpi genicolati laterali), dove si combinano con la metà delle fibre dell’altro occhio: in questo modo si possono elaborare gli impulsi binoculari per ottenere la tridimensionalità e quindi informazioni sulla distanza dell’oggetto osservato. Di seguito, gli impulsi percorrono le fibre che si dirigono alla corteccia visiva, dove si dispongono secondo una collocazione precisa: i segnali di ciascuna zona della retina sono proiettati in un determinato luogo della corteccia, dove avviene l’interpretazione. Peraltro, la corteccia esegue un’analisi in parallelo delle varie proprietà dell’immagine: esistono aree della corteccia dedicate all’analisi delle dimensioni e dell’orientamento, altre al colore, altre al movimento. Nell’uomo e nella scimmia esiste perfino una zona corticale specializzata nel riconoscimento del volto! E immaginate cosa può accadere in caso di una lesione in questa zona della corteccia visiva: ne parla Oliver Sacks nel libro dall’eloquente titolo ‘L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello’. In ogni caso, analizzare le immagini in parallelo consente di ridurre il tempo di elaborazione, e il fattore tempo è anch’esso importante per la sopravvivenza.
Il processo di riconoscimento delle immagini è ancora in parte sconosciuto: ci sono varie ipotesi, alcune per esempio postulano una similarità con il riconoscimento dei suoni nella coclea dell’orecchio, per cui la corteccia visiva opererebbe una operazione matematica chiamata ‘trasformata di Fourier’ dei segnali nervosi per ottenere informazioni sui contorni dell’immagine. Di sicuro, il nostro cervello ha una straordinaria capacità di riconoscere in breve tempo lineamenti complessi, come le parole aventi differente orientamento e stile: provate a leggere la riga seguente
Facile, no? Pensate che non si è ancora riusciti a riprodurre una simile capacità di identificazione nei programmi di ‘riconoscimento testo’ usati nei computer. Tuttavia, la nostra capacità di interpretare tratti e lineamenti può essere messa in crisi da alcuni disegni particolari, come i due esempi in figura, che mostrano illusioni ottiche da falsa prospettiva.
Nel disegno in basso a sinistra (illusione di Hering delle rette parallele) vediamo un’apparente curvatura della parte alta e bassa della cornice, mentre la cornice è quadrata. Nel disegno a destra (illusione del parallelogramma) la retta AB sembra più corta di BC, e invece sono uguali.
È interessante notare che le illusioni ottiche non sono soggettive, perché inducono in errore quasi tutte le persone. Per quale motivo il nostro sistema visivo è tratto in inganno da questi disegni? I risultati di molti esperimenti suggeriscono che il cervello interpreta le immagini sulla base di situazioni vissute, quindi quello che vediamo è condizionato da immagini simili percepite in precedenza. In pratica, noi vediamo quello che ci aspettiamo di vedere in base alla nostra esperienza. Ad esempio, i componenti di alcune tribù africane, che non hanno occasione di vedere spesso oggetti disposti parallelamente o ad angoli retti (rotaie, scatole appoggiate alle pareti, angoli di strade e palazzi) non subiscono l’illusione di Hering!
Bisogna quindi ammettere che il nostro sistema di interpretazione delle immagini non è perfetto, in quanto condizionato dalle forme a noi familiari. Tuttavia, è anche vero che nessuno degli errori commessi nelle tante illusioni ottiche mette in pericolo la sopravvivenza dell’individuo, e tanto meno della specie umana: di questi ‘giochi di illusione’, giustamente, la selezione naturale si disinteressa’
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