L’opera di Calvino a Ginevra
Nel prossimo mese di luglio cadrà il quinto centenario della nascita di Jean Calvin (latinizzato in Giovanni Calvino). Il protagonista del ‘secondo protestantesimo’, ovvero la corrente ‘riformata’ del movimento cristiano evangelicale, venne alla luce a Noyon, in Piccardia (Svizzera), il 10 luglio 1509 e morì a Ginevra nel 1564. Dopo approfonditi studi di grammatica latina, logica, metafisica, morale, retorica e diritto civile, vive da esule vagando tra Strasburgo e Ginevra. Proprio nella città lemana, nel 1541, dà alle stampe la prima traduzione in francese dell’Institutio christianae religionis (Istituzione della religione cristiana), la sua opera più significativa, e stende, senza aver mai preso i voti o essere stato ordinato sacerdote, le Ordinanze che pongono le basi della chiesa ginevrina. Calvino vede gli uomini totalmente corrotti dal peccato originale, ma , tra questi, Dio ne sceglie alcuni per salvarli. Il fedele, secondo il riformatore ginevrino, deve esclusivamente e continuamente alimentare la propria fede alla fonte inesauribile della Parola divina trasmessa dalle fonti evangeliche, per sviluppare un rapporto diretto con il Creatore, tralasciando tutto ciò che può distrarlo dalla vere e uniche ragioni di fede: l’intercessione dei santi, le cerimonie troppo appariscenti, le indulgenze, il culto delle reliquie. Fra i numerosi articoli apparsi recentemente sul riformatore lemano meritano di essere citati due: uno è a firma di Marina Valensise (Il Vangelo di Calvino, Il Foglio, 21 aprile 2009), l’altro è di Massimo Introvigne (Calvino? Non è lui il padre del capitalismo, Il Domenicale, 13 giugno 2009). Entrambi, oltre a esporre dati biografici su Calvino, cercano di smentire quell’energia capitalistica spesso accostata al riformatore svizzero. Valensise e Introvigne, inevitabilmente, accentrano l’attenzione sul famoso scritto di Max Weber L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, cercando di analizzarlo in un’ottica nuova. Valensise presenta una bella intervista ad Harvey Mansfield, politologo di Harvard, che spiega: «Mosso da una visione pessimistica dell’uomo e della caduta conseguente al peccato originale, Calvino ha assoggettato l’uomo alla volontà divina. Ma, in questo, ha anche aperto la strada a un esito paradossale: dall’assoluta soggezione a Dio, è nata infatti l’esaltazione del’individuo; e il sentimento religioso frutto della rottura con la tradizione ecclesiastica ha contribuito a espandere l’etica calvinista del lavoro facendone la premessa del successo negli affari, dell’accumulazione di ricchezze, e dunque anche del razionalismo economico del capitalismo moderno». Tuttavia, continua Mansfield, «gli uomini appartengono a se stessi, per via del loro stesso lavoro di cui sono proprietari esclusivi, è il primo principio della teoria politica di John Locke, che scrive un secolo dopo su Calvino». E ancora: «Tra l’etica protestante e il capitalismo esistono molti punti in comune, ma esiste soprattutto un tipo di cooperazione tra elementi sostanzialmente diversi. Max Weber riusciva solo a immaginare che la purezza della religione cristiana non sarebbe riuscita a sopravvivere nel mondo reale. Pensava che la purezza protestante fosse invivibile, e che per un protestante, l’unico modo in cui Dio potesse indicare agli uomini che erano predestinati alla salvezza, era scoprire quanti soldi aveva guadagnato, quanti affari aveva concluso, quanta ricchezza aveva accumulato. Eppure, insisto, tra l’etica protestante e il capitalismo c’è una bella differenza. La premessa fondamentale del capitalismo non è l’etica calvinista, come pensava Weber». L’articolo di Massimo Introvigne, il sociologo fondatore e direttore del Centro Studi sulle Nuove Religioni (CESNUR), si spinge oltre: «A Max Weber si è sempre fatto dire ciò che non ha detto». E spiega: «I non addetti ai lavori – sulla scia d’innumerevoli libri di scuola – ripetono un po’ stancamente la tesi, attribuita a Max Weber (1864-1920), secondo cui Calvino avrebbe avuto il merito di avere posto le basi del moderno capitalismo… Ma in questa ‘vulgata’ c’è un duplice errore. Anzitutto, la tesi di Weber sulle origini protestanti del capitalismo non è più condivisa da quasi nessuno storico. In secondo luogo, Weber non pensava che Calvino fosse alle origini del capitalismo. Per capire come stanno le cose si deve però riflettere in modo più articolato sul nesso tra modernità e protestantesimo, in particolare nella versione riformata che risale a Calvino. Non è stato Weber il primo autore che ha identificato il protestantesimo con la modernità. Ben prima del sociologo tedesco, la scuola cattolica contro-rivoluzionaria ha identificato la modernità con la rivoluzione – intesa come processo di progressivo allontanamento dell’Europa dalla verità cattolica – e ha visto nel protestantesimo la sua prima tappa». Weber, secondo Introvigne «non pensava che i riformatori, e Calvino in particolare, avessero ‘volontariamente’ voluto sovvertire l’etica e l’antropologia tradizionali per sostituirle con la visione moderna del mondo. “Si deve stabilire – scriveva Weber ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo – un punto: i programmi di riforma etica non hanno mai rappresentato il punto di vista centrale per nessuno dei Riformatori”». Per Weber i Riformatori misero sempre al centro del loro agire la salvezza dell’anima e non vollero mai farsi rappresentanti di aspirazioni di riforma sociale umanitaria o di ideali culturali: gli effetti culturali della Riforma furono in buona parte conseguenze impreviste o non volute. Introvigne altresì afferma: «…Weber non sostiene neppure che tutto il protestantesimo si sia trovato in una situazione di ‘affinità elettiva’ rispetto allo spirito del capitalismo. Lo studioso tende, anzi, a escludere da queste ‘affinità’ sia Martin Lutero (1483-1546) sia Calvino, o almeno Calvino come è stato interpretato in vita e nei primi anni dopo la morte. Per Weber è piuttosto un protestantesimo di seconda generazione, un ‘protestantesimo ascetico’, ad avere favorito il successo dello spirito moderno». Tuttavia, prosegue Introvigne, «anche per i calvinisti tardi… è la fede a salvare e non le opere. Le buone opere così come l’etica della vocazione e della professione non consentono di ‘comperare’ la salvezza, ma – garantendo il successo mondano, che è segno di predestinazione – liberano dalla domanda angosciosa circa la propria salvezza. La dottrina della predestinazione gioca così – paradossalmente contro le intenzioni dei suoi promotori – a favore del capitalismo. Ma gioca solo – e anche su questo punto Weber è spesso frainteso – in quanto spinge certe denominazioni protestanti a promuovere un’etica particolarmente rigorosa e severa che contagia poi anche ambienti come il metodismo, le cui origini teologiche sono peraltro diverse e per qualche verso perfino opposte rispetto alla radice calvinista. Calvino, per Weber, c’entra poco: perché per lui il rigore non si traduceva tanto in un’etica positiva del lavoro (questo è uno sviluppo che sopravviene, appunto, dopo la sua morte), ma in una morale negativa dell’austerità che vietava il lusso, le feste, i balli e tutto quanto connotava una vita più che modesta: una morale, in una prospettiva weberiana, non favorevole all’economia dell’epoca moderna in quanto piuttosto e anzitutto suscettibile di deprimere i consumi… Calvino non era un uomo ‘moderno’ nel senso più corrente del termine: per esempio – ma non si tratta di un punto secondario – il Diavolo giocava un ruolo tutt’altro che minore nella sua esperienza religiosa ed egli non si sarebbe mai sognato di promuovere una teologia secolarizzata come quella di certi ambienti riformati contemporanei da cui gli angeli, i demoni e l’Inferno venissero espunti».
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