L’odore del Sacro Cuore
Gli abitanti del Sacro Cuore si riconoscevano dall’odore di fumo e di panni bagnati. Erano gli sfollati che in tempo di guerra avevano cercato rifugio nel grande edificio, in parte bombardato ma per il resto in buone condizioni, che poi non avevano più lasciato.
Al Sacro Cuore viveva anche una mia compagna di scuola, che un giorno m’invitò a ‘casa’ sua. Dal piazzale in sampietrini si arrivava all’ingresso, dove in un gabbiotto lavorava un orologiaio. Nel cortile si aprivano tante porte e in ogni abitazione alloggiava una famiglia. Tra queste famiglie c’era anche quella di un ragazzo – alto, capelli rossi e occhi verdi – che frequentava il nostro stesso istituto. Si chiamava Franco.
Seguii la mia compagna, Bianca, lungo la scalinata di marmo e ci trovammo in un corridoio fumoso dove attorno ad alcuni fusti militari con il fuoco acceso la gente si scaldava le mani e batteva i piedi. Bambini spuntavano dappertutto, in braccio alle donne, dentro una cesta, a gattonare sul pavimento viscido, a giocare e a litigare fra loro.
Panni stesi ovunque.
In un angolo c’era un uomo che tagliava i capelli a grandi e piccoli e una donna che spruzzava sulle teste rapate una polverina bianca. “Disinfestazione” disse Bianca. Poi m’indicò il “bagno comune”, un vano coperto da una tenda da cui scorreva un’acqua melmosa. Arrivate quasi alla fine del corridoio, illuminato da una portafinestra con i vetri rotti, entrammo in una stanza.
La madre, una donna magra con una mantella di lana sulle spalle, sferruzzava seduta accanto alla finestra. Ci accolse con un sorriso lacrimoso. Tutta la loro casa si riduceva a quell’unico ambiente ingombro di mobili ammonticchiati. Senza luce elettrica e senza acqua. Si arrangiavano con le candele, e per l’acqua si rifornivano alla fontanella giù al piazzale.
Bianca prese due secchi e mi fece cenno di seguirla. Mentre scendevamo la scalinata, un ragazzo ci passò accanto e la mia compagna arrossì abbassando lo sguardo. “Si chiama Walter” sussurrò, e capii che era il suo innamorato. Poi incrociammo una ragazzetta che saliva ridendo, inseguita da un giovane. “Devono sposarsi ” mi disse Bianca, “lei aspetta un bambino”.
Alla fontanella c’era la fila. Si sguazzava nel fango. Mentre aspettavamo il nostro turno chiesi a Bianca da quanto tempo vivesse con la sua famiglia al Sacro Cuore, e lei mi rispose che avevano trovato quella sistemazione da quando erano scappati dai bombardamenti: “Nel nostro paese c’erano solo macerie; anche qui c’erano tante macerie, ma c’era lavoro per mio padre e al Sacro Cuore abbiamo trovato un tetto”.
Un tetto. Il bisogno primario di sfollati e immigrati in quei primi anni cinquanta, difficili e pieni di speranza.
Rientrando trovammo una donna seduta sulla scalinata che allattava il figlio e intanto chiacchierava con le persone di passaggio. Si sentivano risate e canti rimbombare per le pareti e i soffitti altissimi, ma anche urla e pianti e sbattere di porte. Come si fa a vivere in questo modo, mi chiedevo, e Bianca quasi in risposta disse: “Qui non ci si annoia mai, è come al cinema”.
La madre stava ancora seduta a sferruzzare vicino alla finestra. “È malata, fatica a stare in piedi” disse Bianca, mentre versava l’acqua in una pentola che mise a scaldare sulla stufa. In quel momento rientrò il padre. Faceva il manovale in un grosso cantiere, mi aveva detto Bianca. Mi sembrò molto anziano, forse per la stanchezza che gli si leggeva in faccia. Posò a terra una bracciata di legna, andò a salutare la moglie e sedette al tavolo. Bianca gli portò subito un bicchiere e una bottiglia di vino e il padre accennò un sorriso. “Vado a prendere le bambine” gli disse Bianca mentre uscivamo.
“Le mie due sorelline stanno dalle suore qui vicino” mi spiegò.
Il corridoio era affollato e vociante, l’odore del Sacro Cuore si era fatto irrespirabile.
“Non sapevo che avessi sorelle” le dissi quasi in tono di rimprovero.
“Sono gemelle, sono nate qui al Sacro Cuore. E dopo mia madre non è stata più bene”.
Che tristezza nascere in un posto simile, pensai. Dal via vai sulle scale mi resi conto che ai piani superiori viveva altra gente. “Qui siamo in tanti” disse Bianca, “ma c’è posto per tutti. Ieri sono arrivate due famiglie nuove, ora si stanno sistemando. E al piano di sopra stanno nascendo due bambini. Ogni tanto qualcuno muore o se ne torna al paese e si fa spazio agli altri”.
All’uscita, l’orologiaio lavorava nel suo gabbiotto proprio di fronte all’abitazione di Franco, da dove s’affacciò, mentre noi passavamo, una bella donna con i capelli rossi e gli occhi verdi.
Accadde qualche tempo dopo, in pieno inverno. Bianca quel giorno arrivò tardi a scuola.
Era stravolta, lo sguardo assente. Poi improvvisamente scoppiò a piangere. E la cosa si venne a sapere.
Quella mattina all’alba al Sacro Cuore era scoppiata la tragedia. L’orologiaio aveva sparato col suo fucile da caccia alla madre di Franco. Per motivi passionali, si disse. Le aveva sparato a bruciapelo mentre lei stava uscendo per andare a prendere l’acqua. Poi si era sparato alla testa.
Bianca aveva visto i corpi ricoperti da un telo e il sangue raggrumato sul pavimento ghiacciato. Quella notte aveva nevicato, e il sangue non poteva scorrere.
Questi e altri particolari della brutta vicenda si vennero a sapere nei giorni seguenti dai racconti degli abitanti del Sacro Cuore. Dove non solo nascevano bambini e tenere storie d’amore, ma avvampavano passioni che facevano perdere la ragione e la vita.
Come al cinema, dove non ci si annoia mai.
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