Lingue simboli di civiltà?
Anni fa in occasione della Giornata internazionale della lingua madre, Survival International, la Ong che si batte per i diritti dei popoli indigeni, denunciava che ogni due settimane si estingue una lingua indigena. «Delle seimila lingue parlate al mondo, cinquemila sono indigene: e quelle minacciate di estinzione sono, per la maggior parte, proprio le indigene». Ora le cifre saranno cambiate, perché ogni anno si scoprono idiomi non classificati, ma il problema resta.
È un dato che non appassiona il grande pubblico, a differenza dell’orso polare in pericolo o della tigre del bengala a rischio estinzione; ma resta il fatto ad esempio che la morte di due sorelle eyak in Alaska ha decretato la fine di una lingua e quasi 55mila anni di pensieri e idee, la storia collettiva di un intero popolo. Oggi le lingue tribali stanno scomparendo più rapidamente di quanto possano essere documentate, a un ritmo più veloce delle specie animali in estinzione, e ogni volta che una tribù si estingue e la sua lingua muore scompaiono per sempre un altro stile di vita e un altro modo di guardare e interpretare il mondo. Pensate per un momento ai dialetti, che si possono paragonare, in un certo senso, alle lingue tribali. Questi linguaggi sono un ‘mondo’ complesso e ricco di informazioni geografiche, ecologiche, climatiche, umane. Hanno radici locali, ma significati universali. Le lingue sono ricche di intuizioni spirituali e sociali, di idee su cosa significhi essere uomini, di cosa sono la vita, l’amore, la morte. Esistono idee, percezioni e soluzioni sui rapporti che legano gli uomini gli uni agli altri e al mondo naturale. Come scriveva un linguista, «la lingua è uno specchio della mente».
«Non so leggere un libro» ha detto il boscimane Roy Sesana «ma sono capace di leggere la terra e gli animali. Tutti i nostri bambini sanno farlo. Se non fosse così, sarebbero morti molto tempo fa». Roy Sesana, Nobel alternativo nel 2005, si batte da anni in difesa del suo popolo, i boscimani del Kalahari. Con ciò non si vuole dire che il ‘primitivo’ non debba contaminarsi con la civiltà moderna, ricca di svariate tecnologie; ma la nostra globalizzazione non deve portare a una semplificazione che sa di impoverimento. L’inglese è senza dubbio la lingua universale delle contrattazioni commerciali, ma perché un cinese di Canton che parli l’inglese e il mandarino dovrebbe dimenticare il dialetto della sua città?
In questa particolare fase storica della vita dell’uomo civilizzato e super-tecnologico sembra che l’appiattimento, culturale, lessicale, mentale, sia predominante. Probabilmente abbiamo perso il contatto con i cicli naturali (nei supermercati, ad esempio, troviamo tutto in tutte le stagioni) e siamo diventati pigri, fisicamente e intellettualmente. È un dato scientifico che il numero degli idiomi aumenta nei territori ricchi di foreste, in presenza cioè di grande diversità botanica e faunistica.
Mentre è la tecnologia che dà ora una speranza anche per gli idiomi in via di estinzione. La lingua indigena più parlata del Sud America è il quechua, che dopo un lungo declino è rinata con il lancio di una versione di Google in lingua, la creazione dell’applicazione per cellulari Habla Quechua e il rilascio di una versione quechua di Windows e Office da parte di Microsoft.
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