Liberazione dei campi nazisti
Rievocare gli orrori del passato, ricordando come l’uomo, libero di scegliere tra bene e male, abbia più volte nella storia raggiunto la malvagità più brutale, è un impegno da assolvere non solo nelle ricorrenze, ma il più possibile quotidianamente.
La storia della Shoah, perché di storia si tratta, è un capitolo doloroso della storia, è il fallimento dell’uomo, di ogni uomo.
Luce nel buio è la capacità, a mio parere miracolosa, di chi non solo è riuscito a sopravvivere ai campi di concentramento, mantenendo lucidità mentale, aggrappandosi ad ogni tipo di astuzia tale da consentirgli di sfuggire ai continui pericoli di morte, ma è stato anche pronto a condividere con tutti la propria esperienza, a raccontare i più piccoli dettagli di quello che certamente è stato un inferno sulla terra.
Personalmente ho avuto la fortuna di conoscere ed incontrare uno dei sopravvissuti, Shlomo Venezia, un uomo evidentemente provato, ma generoso nel rendersi disponibile a chiunque gli ponesse una domanda – non senza difficoltà – come quando un giornalista gli fece una domanda, mentre Shlomo, con la gentilezza di chi non è stato contaminato da tanto male, ci parlava dei forni crematori nel corso della visita ad Auschwitz, in Polonia. A quella domanda non ci fu immediata risposta, perché Shlomo rimase impietrito, sopraffatto di certo da uno dei purtroppo tanti ricordi, per poi tornare in sé, scusandosi col giornalista, perché lui, Shlomo, aveva ancora difficoltà a parlare con chi portava i baffi.
Il destino è stato con me così generoso da consentirmi non solo di conoscere Shlomo, ma di incontrare, dopo quasi 10 anni, la sua famiglia, i suoi figli, sua moglie, in occasione della mostra “Liberazione dei campi nazisti”, che si terrà al Vittoriano fino al 15 Marzo. È una mostra molto probabilmente non adatta ai più piccoli, ma che i giovani liceali possono, o meglio dovrebbero, visitare. All’interno si possono visionare foto, teche contenenti originali abiti da “lavoro” dei deportati, piccoli oggetti, come delle scarpette, create a mano da deportate fiduciose che prima o poi sarebbero tornate a casa. O ancora pentole originali, cucchiai e posate con cui i deportati mangiavano. È possibile anche vedere dei video, che riportano le condizioni terribili in cui erano costretti i deportati ed in cui si trovavano al momento della liberazione dei campi. La cosiddetta “marcia della morte” a cui molti furono costretti, perché i tedeschi non sapevano che farsene di quelle persone, non sapevano dove metterle, erano troppe, e nonostante gli alleati si avvicinassero sempre di più, continuavano a torturare uomini, donne e bambini, costringendoli a camminare per km e km, con la neve, in condizioni nutritive e di salute pessime. Una mostra che vale assolutamente la pena vedere, col coraggio di non saltare nessuna foto, di non chiudere gli occhi o voltarsi di scatto quando sul video appare un’immagine come dire troppo forte. Bè quell’immagine non è un’immagine troppo forte, è ciò che è accaduto, è storia, è verità e spetta a noi tutti oggi, domani e sempre, portare avanti questa verità. Stamparcela sul cuore, non è un compito, è un dovere. Lo dobbiamo a tutte le vittime dei campi di concentramento, lo dobbiamo a chi come Shlomo Venezia, sopravvissuto, ha trascorso gli ultimi anni della sua vita a testimoniare la drammaticità della sua esperienza, con quel peso sul cuore, che ora spero, anzi sono certa, il caro Shlomo, non sente più.
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