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Lezione di piano tra tecnica e sentimento

Luglio 01
02:00 2007

Edito dalla Fondazione Musicalia per i tipi della Bastogi Editrice Italiana un singolare volumetto, che difficilmente si potrebbe chiamare ‘saggio’ per la intensa passionalità che lo anima: L’uomo e il pianoforte, del pianista e docente Massimo Trisciuoglio. Il sottotitolo”Un rapporto indissolubile tra sentimento e scienza” ben ci chiarisce la natura di questa ‘esplorazione’del rapporto complesso e spesso conflittuale che si instaura tra pianista e strumento. Anche quella musicale, come altre forme di comunicazione, comporta un ‘codice’ e un ‘canale’, come ci insegna l’analisi strutturale. Ma qui, più che altrove, diventa essenziale l’interazione tra sentimento e tecnica come lapidariamente esprimeva Mozart “Tre cose sono necessarie per un buon pianista: la testa, il cuore e le dita”. La formazione del pianista comincia dunque con l’impostazione della mano e dell’avambraccio, per ottenere lo sfruttamento ottimale della dinamica dell’articolazione. E sul piano del metodo, a differenza dei primi empirici metodi ottocenteschi, si sfrutta oggi la perfetta conoscenza delle leggi anatomiche e fisiologiche che regolano lo svolgimento dell’esercizio pianistico. D’altra parte il pianoforte, a differenza del clavicembalo in cui le corde sono pizzicate da una penna, consente una ben diversa espressività poiché le corde sono percosse da un martelletto che, una volta colpita la corda, si allontana lasciandola libera di vibrare e consentendo così anche di prolungare il suono.Se inventore del ‘fortepiano’ (antenato del pianoforte) fu un italiano, B.Cristofori, costruttore di clavicembali, italiano fu anche chi all’inizio dell’Ottocento ne perfezionò la tecnica, allontanandola definitivamente da quella clavicembalistica, cioè Muzio Clementi. Nell’Ottocento il pianoforte divenne protagonista indiscusso della vita musicale, nella fruizione privata o collettiva, status symbol nei ‘salotti buoni’ o complice di romantiche passioni. Ma al di là della fascinazione esercitata dal pianoforte e dalla sua storia sul nostro immaginario, resta il dato scientifico che dimostra come lo studio pianistico accresca la mielinizzazione dei nervi che permettono di muovere indipendentemente le dita, e delle fibre che connettono le aree uditive dei due emisferi. Da qui l’opportunità di un approccio precoce allo strumento.Determinante è poi nel rapporto che si instaura tra il pianista e lo strumento, il ruolo del maestro. D’altra parte, se una volta si vedeva lo studio pianistico come parte integrante di una formazione culturale polivalente, oggi la lezione di pianoforte viene inserita nell’economia familiare piuttosto in vista di un eventuale futuro professionale. E ciò pesa in un certo senso negativamente sull’approccio iniziale, riducendo quello spazio di libertà e di diletto che esiste invece in una dimensione appunto ‘dilettantistica’. Per garantire un approccio facile e stimolante allo strumento, maestri come Kim Wrught, che nella sua scuola di Udine inizia bambini a partire da 18 mesi, ha correlato nota scritta, mano e tastiera utilizzando il colore (ad es. blu la nota, blu il tasto, tinto di blu il pollice per indicare il do). Inoltre, a differenza della didattica tradizionale, che prevede all’inizio lo studio della notazione scritta, va rivalutato nella didattica musicale, e pianistica in particolare, il ruolo dell’improvvisazione, che sviluppa nel discente un atteggiamento attivo coinvolgendo facoltà diverse, come concentrazione, memoria, capacità di analisi e sintesi. Specialmente al bambino poi, va presentato lo strumento come ‘oggetto sonoro’costituito da materiali diversi e in grado di dare risposte diverse a seconda della stimolazione adottata. A questa fase esplorativa si farà seguire una fase di esperimenti sonori secondo principi di associazione e dissociazione, tanto più proficua se realizzata con piccoli gruppi di allievi, e solo in seguito all’esperienza diretta si avvierà il processo di comprensione e l’elaborazione della teoria. Non dovrà mancare mai inoltre lo stimolo all’espressività, al conseguimento dell’obiettivo ‘artistico’,e neppure l’esempio continuo da parte del maestro come faceva Liszt, grande nella didattica non meno che nel personale virtuosismo, o come A. B. Michelangeli, il quale sosteneva che a garantire la riuscita occorra “un quarto di talento e tre quarti di paziente lavoro”, quasi artigianale, i cui segreti il grande maestro dispensava con grande generosità agli allievi. A conclusione del suo lavoro, il Trisciuoglio passa in rassegna una serie di opere letterarie e cinematografiche che hanno posto al centro dell’osservazione quel rapporto magico ed esclusivo, esaltante ( ma talvolta devastante) che si crea tra pianista e strumento, lasciando spesso il pubblico al ruolo di corollario: da Il soccombente di T. Bernhard a Il pianista di Polanski, fino a Shinecon la sua terribile parabola dell’arte come forza distruttiva prima che catartica; tutte storie queste ispirate peraltro da personaggi e vicende reali.

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