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L’editoria non è la letteratura

Luglio 21
10:21 2012

In un articolo intitolato Non tutto è perduto, uscito sul suo blog lo scorso 13 maggio (http://bit.ly/KgnfP1), Roberto Cotroneo, riferendosi al calo di vendite annunciato al Salone del Libro di Torino, lamenta: «Dati poco incoraggianti. In Italia c’è stato quasi un crollo del mercato editoriale e la cosa ancora più preoccupante è che stanno diminuendo i lettori forti, ovvero coloro che leggono più di 12 libri all’anno.» Condivido il senso dell’articolo e lo apprezzo molto, tranne per alcuni passaggi, dai quali prendo qui spunto. Non condivido affatto l’affermazione secondo la quale i «lettori sono di gran lunga migliori degli editori, degli scrittori, dei librai e dei critici», anche se intuisco l’amarezza che ne ha dettato l’iperbole provocatoria: se lo fossero, troverebbero da sé le vie che conducono ai libri di qualità.

Le persone sono perlopiù disorientate e chi legge ha sempre minor contezza di cosa sia letteratura e cosa sia intrattenimento. Se esse, come afferma Cotroneo, «hanno capito che la letteratura è un marketing di poco conto», questo significa che scambiano l’editoria per «letteratura». Di fatto, prendendo il sistema editoriale per un Luna Park (poiché su questo pone l’accento la grossa editoria italiana, a cominciare dalle copertine “allettanti” e finendo con le megalibrerie con servizio bar), molti lettori (ma grazie al cielo non tutti) confondono l’editoria con la letteratura, la quale non è detto che non serva anche a far divertire e svagare, ma certo è ben poca cosa se si limitasse a questo. Il discredito della narrativa sta colpendo da tempo anche i paesi anglosassoni, i quali hanno premi di qualità notevolmente superiori ai nostri, se non altro per lungimiranza. Non è detto che il romanzo debba essere un genere imperituro, ma la narrativa sì. Piuttosto c’è da porsi il problema di quali siano le ragioni del discredito. Anche il lettore fornito di buone capacità interpretative sta perdendo l’abitudine a prendere sul serio sia un romanzo sia un film. Leggere tra le righe, farsi guidare dalla semantica della forma (che senso abbia un’inquadratura o un’allitterazione, per esempio) pare sia diventato un esercizio difficilissimo per il lettore, vorace ma disattento. Perché una letteratura prosperi, occorrono lettori attenti, attivi e pronti a criticare e dialogare con gli autori e con gli altri lettori. Limitarsi alla considerazione che un libro piaccia o meno non è un approccio in questa direzione. Non muovendo da un problema culturale, ma dal fatto che si vendano meno libri, Cotroneo non inquadra il problema nella dialettica che prende corpo tra letteratura e divulgazione in seno ad una collettività. La letteratura non è certamente una manifestazione dell’economia: per questa vendere più libri o più bulloni potrebbe non fare molta differenza sotto il profilo di occupazione, PIL, leva fiscale, formazione, finanziamenti, bilanci, smaltimento residuale. La letteratura col mercato non c’entra nulla, benché il mercato abbia oggi molto a che fare con la letteratura. La letteratura viene prima del mercato, a prescindere dal mercato e va al di là del mercato. Prima non in senso economico e politico, ma antropologico, storico, psicologico, dialettico e dunque anche morale. Fin dall’antichità il potere ha sempre cercato di avocare a sé la letteratura e in questo momento storico il mercato, in quanto potere, fa il suo gioco, a discapito degli autori. Se il problema letterario non viene compreso nelle sue radici, è ben difficile comprendere il danno che la cultura italiana sta subendo. La crisi economica – e quindi il calo nelle vendite dei libri – segue in realtà una crisi tante volte segnalata da me e da altri riguardo il sistema culturale italiano, incapace qual è da lungo tempo di esportare le proprie riflessioni e raffigurazioni all’estero. Certamente, chi svolge un’attenta attività critica ha il compito di comunicare ai lettori cosa meriti di esser letto e perché, rifiutandosi di scrivere brevi testi compiacenti e ritagliandosi piuttosto comodi spazi (come nei blog), in cui offrire interventi critici di una certa lunghezza. E occorre pure smetterla di scrivere bene del libro di un autore, perché lo stesso ne aveva scritto uno buono in precedenza, soprattutto se si tratta di un “amico” o di un “collega”. Le recensioni d’autore, da quel che mi risulta, sono in genere molto lunghe sui più stimati quotidiani anglosassoni. In Italia la brevità nel recensire segue una tradizione novecentesca, che nasce prima di noi e che si è negli ultimi decenni ulteriormente liofilizzata, in nome dell’autorevolezza del recensore (la ‘firma’) e a discapito del contenuto critico. Non si capirebbe, altrimenti, perché Atwood e Coetzee debbano scrivere lunghe recensioni “dimostrando” il loro punto di vista, privilegio negato ai nostri illustri concittadini, di ieri e di oggi. Se la critica italiana si è affidata agli editori e non viceversa, questo è un problema che il critico deve porsi.

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