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Le tre età di Peer

Le tre età di Peer
Dicembre 01
02:00 2007

Il Corpo di ballo del Teatro delI OperaCoerenti con l’obiettivo di segnalare ai lettori spettacoli che ci sono apparsi significativi, anche se talvolta passati in sordina, vogliamo ricordare il nuovo allestimento presentato a novembre all’Opera di Roma come balletto in tre parti, per la coreografia di Renato Zanella e la regia di Beppe Menegatti, sotto la direzione di Peter Tiboris. Lo spettacolo, ispirato al testo di Ibsen, distribuisce in una partizione ternaria una materia originariamente vasta e frammentata. Azzeccata perciò la scelta della regia di organizzare l’opera in piccole scene, restituendo così l’immagine di un percorso che non è avanzamento, di una vita che non è crescita. Come viene sottolineato con forte evidenza iconica dalla scenografia (di Cristian Biasci), essenziale e verticalizzata, che dispone in largo cerchio una serie di pilastri, ad abbracciare sul fondo tre alti riquadri, entro i quali si stagliano, in apertura di scena, i tre Peer, interpreti diversi delle diverse età del protagonista: il Peer di 20 anni (Alessio Carbone), quello di 40 (Alessandro Molin), quello di 60 (Egon Madsen). Il fondale, se pur di volta in volta allusivo ai diversi paesaggi attraversati da Peer, torna ciclicamente a richiamare uno stilizzato spazio nordico di renne ed abeti, mentre vengono di volta in volta calati disegni dello stesso Ibsen, quasi commenti o richiami grafici coerenti con la situazione in atto. La musica, interamente composta da Grieg, è stata curata dal maestro Sodini in funzione intensamente descrittiva, ad accompagnare questo “balletto narrativo”, riprendendo ciclicamente dei temi in funzione di Leit-motive. Punto di partenza letterario il dramma in 5 atti di Ibsen, scritto nel 1867 durante un viaggio in Italia, ma rappresentato solo nel 1876 con le musiche di scena di Grieg, che questi cominciò a stendere nel 1874, continuando poi però a lavorarvi per tutta la vita e ricavandone tra il 1888 e il 1893 le due famose suite. Dell’opera la musica rappresenta il collante e la trama profonda, che dà voce e colore ad una storia non-storia, ad un movimento che è un rimanere, ad un procedere che è un girare in cerchio. Di esperienze si avvolge Peer, passando dall’una all’altra senza scegliere. Obbedendo solo al destino che gliele presenta e al desiderio che verso di esse lo sospinge, senza sosta. La vita di Peer è un’opera incompiuta e la danza ne è la metafora. Danza Peer. Volteggiando sfiora, urta, travolge, abbatte: creature, sentimenti, occasioni. È coinvolto in una rissa e diventa fuorilegge. Rapisce una fanciulla e la abbandona. Seduce la figlia del re dei Troll, gli spiriti della foresta, e fugge. Diventa mercante di schiavi in Marocco, capo beduino e profeta. Tenta di sedurre Anitra e finisce incoronato imperatore tra i pazzi al manicomio del Cairo. La musica suggerisce e descrive: la baldanza del giovane contadino, l’orgia selvaggia dei Troll, il pudore di Solveig, la seduzione di Anitra, il compianto degli archi e dei corni per la morte di Aase, la madre. Sullo sfondo, saldi, i riquadri che segnano le età di Peer, quasi biblico memento: 3 volte venti più dieci, gli anni della vita. Salde, uniche certezze nella vita di Peer, anche Aase e Solveig, presenze ricorrenti nelle tre parti dell’opera. Nella terza parte, infine, giunta l’ultima stagione, esaurita ogni seduzione e inganno della vita, passata anche la tempesta e il naufragio, superata perfino l’angoscia dell’incontro con la morte (allusa nell’horror vacui della bara vuota), arriva il tempo di Solveig. Dallo ieratico corale del fonditore di bottoni, che aspetta l’anima per fonderla nel suo crogiolo (dove si saprà se l’uomo ha assolto il suo compito e realizzato se stesso), la musica si scioglie nella Ninna nanna di Solveig, la fanciulla che ha sempre aspettato Peer e gli canta l’ultima consolazione. Bravi i ballerini: leggero e sventato il Peer dei venti anni, determinato e avido quello dei 40, incerto e stupito quello anziano, impreparato all’imminenza della fine. Allusiva e discreta Sara Loro nei panni di Solveig, trascinante nell’impeto selvaggio della sensualità la Verde, interpretata da Gaia Straccamore. Straordinaria nei panni di Aase la Fracci che, da grande danzatrice e attrice, disegna con efficacissimi tratti la madre, quasi rispecchiata dallo sguardo del figlio: prima educatrice, a volte dolcemente severa, con movenze quasi alla Mary Poppins, a volte beffata; poi donna nella scena con i quattro esattori, nella struggente malinconia degli affetti e ricordi cui si aggrappa, posandosi come una farfalla tenace sulle sue cose, una cassapanca, una sedia, che quelli sono venuti a strapparle. Infine bambina, al momento della morte, raccolta nella slitta in cui il figlio la compone. In ultimo madre-radice, quella che anche oltre la morte continua a rappresentare il legame dell’uomo con questa terra e insieme la via verso il cielo, quando nella “Last spring” danza con i tre Peer l’ultimo passo a quattro.

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