“Le sedie” di Ionesco al Teatro di Terra di Velletri
Giovedì 1 giugno e venerdì 2 giugno alle ore 21,00, sabato alle ore 18,00, al Teatro di Terra andrà in scena la nuova produzione della Compagnia Stabile del TdT diretta da Luigi Onorato, con Carla Petrella, Edoardo Baietti, Francesco Tibaldi.
Il progetto Multiplo Teatrale riguarda la produzione teatrale. Tende alla professionalizzazione. Ovvero attraverso piccole produzioni di spettacoli teatrali con pochi personaggi, minime scenografie, semplici costumi, scarsa annunciazione del miracolo, come usa in provincia, si da la possibilità a selezionati giovani legati per frequentazione al TdT, di lavorare con attori più esperti, sotto la guida del direttore artistico, per realizzare spettacoli da repertorio, che possano essere replicati di frequente, ed affinati, senza interruzione. Che vadano oltre i saggi laboratoriali, oltre le approssimazioni tecniche e culturali amatoriali che conculcano l’anelito all’arte teatrale. Un progetto controcorrente nell’attuale momento di disattenzione e nelle politiche strapaesane dei Comuni, inesistenti dell’area metropolitana, avare della Regione, ipocrite dello Stato. All’insegna della continuità continua: niente eventi, passata la festa gabbatu lu santu. Le scelte provengono dagli stimoli dei vari artisti (quei pochi che vi sono sul territorio) e dai gruppi stessi. Dopo il debutto di aprile de Le serve di J. Genet (Petrella, Ercoli, Brunetti) che ha mostrato cosa intendiamo per produzioni professionalizzanti, e l’annuncio per il 1°, 2 e 3 giugno p.v. de Le sedie di E. Ionesco, (Baietti, Petrella, Tibaldi), il progetto continuerà in seguito con il mito di Edmond Kean, con due letture differenti (Gassman, Dumas, con Baietti; e Proietti, Raymund FitzSimons, con Shany Martin) e un testo inedito di Canarutto su personaggi dell’economia: “Il canone anglo sassone?”.
Le sedie, di Eugéne Ionesco, fu rappresentato per la prima volta nel 1952 a cura di Sylvain Dhomme. Una messinscena nel 1956 (Parigi), a cura di Jaques Mauclair, anche nel ruolo del vecchio e la Tsilla Chelton in quello della vecchia – già da lei coperto nel 1952 – è stata al centro di più riprese, l’ultima nel 1993, e divenuta un vero must, a riprova del successo del testo, di Ionesco e dello spettacolo.
Due vecchi vivono in una specie di faro. Per riempire il vuoto dell’isolamento preparano una conferenza che terrà un oratore professionale, il quale comunicherà il messaggio all’umanità che il vecchio ha elaborato negli anni. Sono invitati praticamente tutti. Al di là di ogni aspettativa gli invitati arrivano in gran numero, oltre la capienza del locale e le sedie a disposizione. Nella ressa generale fa il suo ingresso persino l’imperatore! I due vecchi al sommo della felicità decidono di passare a miglior vita gettandosi tra i marosi e lasciando il loro messaggio all’oratore. L’oratore cerca di spiegare al pubblico presente il messaggio, con i segni, la parola, e le scritte sulla lavagna. Ma ogni sforzo è inutile: egli è muto ed il pubblico è inesistente, immaginario, non c’è. L’oratore desiste e se ne va. Allora un vocio da folla si leva assordante nell’assoluto silenzio…
E’ passato tanto tempo! Fu chiamato teatro dell’assurdo per via del linguaggio illogico, e dell’assurdità dell’esistenza propugnata dall’esistenzialismo filosofico, da un critico, Martin Esslin. Ma gli autori compresi nella dizione erano personalità molto differenti, non una scuola -c’era anche Genet- Legati dal clima culturale del dopoguerra, riflettevano sul carnaio della guerra, le verità comuni rivelatesi false, e sul linguaggio teatrale d’avanguardia (Jarry, Artaud), tentando di superare il realismo teatrale come era avvenuto nelle altre arti.
Cose per noi scontate, fino all’eccesso.
Allora abbiamo pensato ad oggi, ad una storia d’amore lunga una vita. A due vecchi vicini alla fine. A due persone semplici in un passato che rivive con delle petites madeleines. Alla volontà di affermarsi fino alla fine nella inutilità della comunicazione, e nella coscienza di essere dei falliti, come tutti, oggi: un po’ Fantozzi un po’ Napoleone. Abbiamo cercato di reperire un calore umano, anche nel rispetto del meccanismo teatrale svuotato dall’autore, anche nella fredda comicità duchampiana. Nulla di stentoreo, apodittico, messianico. Piuttosto una minuta umanità che resta come un residuo un retrogusto. Tutta esistenziale nel senso del vissuto sempre degno di pietà, non di retorica. I due vecchi sono tali ovviamente non per età, ma perché vicini alla fine, addirittura per scelta. La caduta del pensiero, del messaggio, della parola, diventa una specie di resurrezione dell’esistenza che in quanto vissuta è sempre degna, anche nella supposta banalità dei riti quotidiani, delle piccole -ma regali- cose. Una disperata speranza che scaturisce dal deserto del Day After. Quello che vediamo intorno a noi e su di noi, oggi, senza infingimenti, che ci sommerge, oggi, ci annienta e ci spinge alla frenesia tecnologica, oggi. Non apocalittico, né tragico, ma farsesco, che ci annulla tragicamente ma è la farsa dell’esistenza, e noi siamo là comunque, anche sull’acqua alla fine del mondo, come questi vecchi coi quali Ionesco distrugge tutto: le persone che sono inesistenti, la parola, il linguaggio che è equivoco, insignificante, a volte solo suono o fonema, la storia frantumata dal riso al pianto come inutile trama, tessuto sfilacciato, il teatro, meccanismo emozionale, senza sentimenti. Ma la speranza esce forte da questa farsesca disperazione. Almeno nella pietà dei personaggi e di noi stessi, esseri insignificanti. Speranza di qualcosa che ci illuminerà sula via della vita, o della morte, che non sappiamo cosa sia, che abortisce nei due vecchi, appena si palesa, ma che ci unisce, unisce le nostre esistenze, come quelle banali dei due vecchi, una coperta comune, una specie di umanesimo, di cui avvertiamo il bisogno, quasi la necessità. Oggi più che ieri!
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