Le rosette di Ceva
Quando ero bambina, fine anni ’50, viaggiavo per vedere il mare.
Una bimba di sette anni magrissima e attenta ai colori e alla luna.
Il mare era per pochi, a quel tempo.
Papà era impiegato presso una società di assicurazioni e la mamma faceva la sarta , con molta riluttanza.
A dodici anni l’avevano spedita a Chieri per imparare il mestiere in una sartoria ma , in realtà, era costretta alle faccende di casa.
Il padre di lei era stato fattore di un castello, residenza estiva di nobili e ricchi e la madre era la cuoca.
Quando il padre diventò troppo vecchio per portare avanti i lavori fu scacciato dal castello con l’infamia di aver rosicchiato qualche lira dai conti.
Egli si ammalò di angina pectoris e la famiglia fu sparpagliata dai parenti più benevoli.
Il lavoro di sartoria come schiavitù dopo la caduta.
Peccato, era un vero talento: vestitini per la festa, cappottini rossi, grembiulini con i cuoricini,mia sorella ed io abbiamo indossato vere meraviglie.
Un giorno la mamma smise di cucire del tutto ancora molto giovane e iniziò ad esprimersi con un linguaggio difficoltoso come se le parole non fossero la sua materia.
Ero anoressica con una grande simpatia per i pasti fuori orario: la merenda era un cibo giocoso e non obbligatorio.
Dietro casa, in una vecchia stradina di Barriera di Milano a Torino, bastava salire pochi gradini e si era in un paradiso di sapori colorati.
Scodelline da collezione di plastica rosa confetto, piattino verde pistacchio e cucchiaino giallo contenevano la prima forma di cioccolato non ancora industriale, lunghi bastoni rigati di zucchero alternati a stecche di liquirizia legnosa o spirali di quella nera e lucida.
Pesche dolci con ripieno di marmellata di albicocca, spruzzo di panna e ciliegina, confetture solide con figurine di attori o ciclisti, torroni di ogni formato. La botteghina gestita da una donnetta piccolina sempre con il grembiule scuro, una fata nascosta in un antro buio e fresco.
Amavo anche mangiare fuori casa, esistevano le prime pizzerie e i genitori mandavano i bambini ad acquistare la pizza perché non era elegante per un torinese entrare in quelle piccole fornaci di meridionali appena arrivati dal sud.
Ma torniamo al mare.
Dopo un paio di anni trascorsi a Rimini ove il rito della merenda era officiato da un bellissimo ragazzo di nome Paolino che le turiste tedesche con i primi bikini cercavano di accattivarsi, si andava in Liguria.
Paolino dentro una teca di vetro e legno portata a spalla offriva bomboloni ripieni di crema sontuosa, frutta candita in tutte le forme dal cedro al grappolo d’uva, torte casalinghe con marmellate, uova dolci nel nido, di che sognare…
In Liguria, a Varazze, a Noli dove sbarcavamo nel mese di luglio, non esisteva cibo così fantasioso, si vendevano soprattutto focacce.
I liguri allora con un poco di disprezzo ci chiamavano “i bagnanti” parlando tra loro e affittavano i loro appartamenti per andare a vivere in qualche tugurio in campagna, a volte nel pollaio stesso.
Il mare era freddo e le persone forse di più.
Mio padre sceglieva sempre gli stabilimenti balneari più costosi così accanto al nostro ombrellone
c’erano i piccoli industriali del dopoguerra e i mobilieri della Brianza, tutti lombardi o quasi.
I torinesi avevano case di campagna in Piemonte in luoghi che ora sono marginali per il turismo: Pessinetto, Roccavione, Pavarolo…
La sera, noi bambini scendevamo sulla spiaggia per ascoltare i concerti dei cantanti che numerosi affollavano le terrazze degli stessi bagni, ricordo il concerto di Umberto Bindi che suonava il pianoforte sotto una luna piena di luglio.
Non ho avuto amori pre-adolescenziali in quel luogo, frequentavo la compagnia di mia sorella ed erano tutti troppo grandi per me.
Un pomeriggio andammo alla grotta saracena: vi si entrava via terra da un cunicolo e appena scesi si spalancava all’improvviso il blu del mare e un ragazzo mise in mio onore, ché somigliavo a Audrey Hepburn, il tema di colazione da Tiffany, Moon river.
Un apprezzamento al barlume di femminilità che iniziava a rivelarsi nel mio sempre magro aspetto.
Una sera, ai bagni del Lido, capelli cortissimi, calzoni aderenti e camicia maschile fui corteggiata da un trentenne che solo più tardi scoprì che ero una ragazzina e si allontanò disgustato, lui era un pederasta che vidi nei giorni successivi appostato accanto a una colonia di ragazzini.
Quell’estate partecipai a una caccia al tesoro e vinsi un Pluto di plastica che troneggiò per molto tempo sui pensili della cucina a Torino.
Ballavo molto bene sia il rock che il twist e una sera una madre per esporre la figlia agli sguardi degli uomini mi chiese di farla ballare, avevo dodici anni e lo presi come un onore, un omaggio alla grazia del mio ballo.
Come era ingannevole la realtà.
Ho sempre amato nello stesso modo gli umani, gli animali e gli oggetti inanimati, non per qualche precetto orientale ma per una propensione naturale all’affezione.
Le camere da letto di quegli appartamenti liguri che mio padre affittava le lasciavo malvolentieri e speravo di ritrovarle l’anno successivo.
Il tempo dell’estate era ricco di incontri, di musiche, del profumo dei pini, di gelati all’aperto, di sguardi nuovi e resi più profondi dall’essere effimeri, le canzoni che segnavano i ricordi, Legata a un granello di sabbia, Tintarella di luna, La gatta, Il cielo in una stanza, Il mondo…
Ancora oggi quando le ascolto mi emoziono e risento certi profumi di oleandro e salmastro.
Il viaggio di ritorno era sempre triste ma un piccolo gioiello ci aspettava durante il tragitto.
Nel viaggio di andata la mamma confezionava panini caserecci che apprezzavo molto perché la mia anoressia era relativa soltanto all’ambiente familiare, sul treno mangiavo con appetito.
Al ritorno partivamo leggeri perché verso le sette di sera il treno si fermava a Ceva e i proprietari e camerieri del bar della stazione si avvicinavano al binario e offrivano le rosette con la frittatina calda.
Il treno sostava un poco di più per consentire ai viaggiatori di soddisfare il loro piacere.
Nella mia vita ho desiderato, ricordato e amato pochi cibi come le rosette di Ceva.
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