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Le religioni di origine semitica e la fine della civiltà europea antica

Luglio 06
11:34 2016

“Madre, cosa posseggo io
Che possa chiamare mio?
Il mio corpo sei tu.
La mia mente sei tu.
La mia anima sei tu.
Perché dunque ti prendi gioco di me
Illudendomi che siamo separati?”
(Saul Arpino)

La frattura fra pensiero occidentale ed orientale, in merito al concetto di Dio, è avvenuta sostanzialmente con l’accettazione da parte dell’occidente della concezione giudaica di un dio creatore, fatta propria dalla religione cristiana e successivamente dal quella islamica. Fino a quel momento, diciamo fino al famoso editto di Costantino, la realtà degli dei era quella di “forze naturali” che fungevano da compensatori. Mentre per la cosiddetta “creazione” si sottintendeva la presenza di una matrice unica che veniva indicata come “natura” (“natura naturans” e “natura naturata”) e corrispondeva alla figura di “Grande Madre” della civiltà neolitica.

Il giudaismo in verità non soltanto identificava in un dio padre il creatore ma sovvertiva anche totalmente gli antichi valori “naturalistici”, ed il cristianesimo come pure l’islamismo proseguirono caparbiamente in quel filone. A dire il vero la prima spallata alla concezione “naturalistica” della divinità fu data dalle prime popolazioni ariane che invasero buona parte del mondo antico e ciò avvenne circa diecimila anni fa, alla fine del neolitico, in tempi di molto anteriori alla nascita del credo monoteista come oggi noi lo conosciamo.

Tuttavia ancora cinquemila anni fa nella cultura vedica, come in quella sumerica, iraniana, greca, romana, celtica, ecc., insomma in tutte le culture di origine indo-europea, pur avendo assunto forme miste (maschili e femminili) gli dei erano considerati espressioni della natura e potevano essere ingraziati attraverso sacrifici, al fine di ottenerne favori. Vigeva insomma una sorta di interscambio “do ut des” fra gli dei e l’uomo (inteso come essere umano nella sua totalità).

Nell’ebraismo invece il rapporto era preferenziale fra un ipotetico dio creatore e signore ed il suo popolo prescelto. Ed in verità non si comprende come le menti raffinate dell’Europa antica e del vicino oriente siano state soggiogate da un pensiero esclusivo e misogino che definirei persino razzista. E’ vero che la figura del Cristo si pone come salvatore di tutte le genti ma ciò avviene senza negare il bagaglio religioso giudaico, quindi i cristiani ed i musulmani in un certo senso si son tutti convertiti all’ebraismo, pur non potendo in realtà esserlo (poiché ebrei si nasce e non si diventa).

A mano a mano che le popolazioni europee accettavano il concetto di un dio padre creatore si allontanavano sempre più dal pensiero olistico, tutt’ora vigente in gran parte dell’Oriente, che continuava a considerare la divinità come una energia compensativa. Il nome Ishwara, che sta per Signore in sanscrito, rappresenta la “forza del destino” ovvero la capacità di amministrare la legge di causa ed effetto, con relativa retribuzione karmica. Ma anche questa descrizione di dio era (ed è) in realtà una “favola” per accontentare il popolo che sentiva il bisogno di sentirsi riconosciuto nei suoi sforzi di compiere un cosiddetto “bene” sociale. Prova ne sia che in India come in Cina, ed in altri luoghi dell’oriente, perdurarono per millenni ed ancora perdurano pensieri laici come il Taoismo, il Buddismo, l’Advaita, etc.

Pensatori come Shankaracharya, Lao Tze e Buddha sono tutt’oggi considerati all’apice della spiritualità e dell’intelligenza umana. Ed il loro pensiero, antico di millenni, è ancora fresco e giovane ed oggi è corroborato dalla moderna fisica quantistica.

L’Assoluto esiste di per se stesso senza inizio né fine, in un unicum inscindibile, che tutto compenetra ed allo stesso tempo trascende. Se un dio appare è solo una immagine in questo “pieno/vuoto” del senza forma.

Il tentativo di far rivivere in occidente questa “conoscenza” ancestrale e preesistente a qualsiasi religione viene assunto nel tempo presente dalla cosiddetta “spiritualità laica”. Una spiritualità che si libera dalla gabbia religiosa per riscoprire la sua vera sostanza: coscienza ed intelligenza all’interno e materia e vita all’esterno. Due aspetti inscindibili della stessa manifestazione. Ma -come è chiaramente detto nelle tradizioni non-duali, taoiste e buddiste- questa conoscenza non può essere appresa attraverso lo studio, attraverso libri sacri.

Non esistono vangeli. Esiste solo la consapevolezza e questa stessa consapevolezza è il proprio laboratorio di ricerca e di realizzazione.

In un’antica Upanishad è detto: “Dal Tutto sorge il Tutto. Se dal Tutto evinci il Tutto, sempre il Tutto rimane”. E consideriamo attentamente dove noi siamo, in qualsiasi luogo o forma, in qualsiasi tempo, non possiamo fare a meno di essere il “centro” poiché nell’infinito e nell’eterno non esiste “periferia” e separazione. Il sentimento di costante presenza indivisa, la coscienza dell’inscindibilità della vita, riconoscibile in ogni suo aspetto e componente, partendo dal “soggetto” percepente, insomma la conoscenza “suprema”, significa essere consapevoli che tutto quel che “è” lo è in quanto tale. Perché l’esistente è uno, non può esserci “altro”…

Questo sentire non implica un abbandono dell’agire e del retto comportamento nelle condizioni in cui ci si trova nell’esistenza, al contrario implica una assoluta accuratezza e capacità operativa, non macchiata dal senso di ricompensa…. (come avviene nelle cosiddette religioni monoteiste). Insomma per essere veramente liberi dai preconcetti e vivere in unità con l’esistente dobbiamo compiere il primo passo verso noi stessi, aldilà del contesto sociale e della ideologia, concentrando la nostra attenzione sulle cose che possono essere fatte, per noi stessi e da noi stessi, nell’immediato presente.

Per cominciare riponiamo fiducia nelle nostre personali capacità innate di riconoscerci nella grande espressione dell’esistenza. Questo non significa abbandono della comunità, anzi una tale consapevolezza corrisponde alla riscoperta dei valori della comunità, valori basati sulla propria autoresponsabilizzazione nei confronti di noi stessi -in primis- e successivamente verso i nostri consimili (i viventi nel loro insieme). Questo non può essere un atteggiamento sentimentale, bensì operativo, organico, definitivo e totale. Comprendente i vari piani dell’andamento vitale senza esclusione di modi e senza eccessi.

Qui parlo anche di “generosità umana” come la definiscono in Cina i taoisti, una generosità che non è semplice “benevolenza” (o nonviolenza) bensì la confacente espressione della propria natura umana, ivi compresa la capacità (o coraggio) di manifestare opposizione alla prevaricazione ed alla strumentalizzazione religiosa o politica. In quanto la “sostanza” non può essere “descrizione” e la summa teoretica non può superare la pratica.

Paolo D’Arpini

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