Le Persiane
«Noi abbiamo perduto
tutto ciò che potevamo perdere
noi, ci siamo messi in cammino, senza lume,
e la luna,
l’affabile femmina, luna,
era sempre lì
nei ricordi infantili di un tetto di argilla
e sui campi verdi
impauriti dall’assalto delle cavallette
Quanto bisogna pagare?»
Forough Farrokhzad (1934-1967)
Le ragazze e i ragazzi che vogliono rivoluzionare la posizione femminile nella società iraniana sono eredi, anagraficamente, degli studenti che consegnarono il Paese nelle mani dell’imam Khomeynī, partendo proprio dalle università all’epoca, con una spinta diversa, per un maggior rispetto della tradizione, che non sentivano sufficientemente presa in considerazione dall’esiliato scià Pahlavi. Le spinte attuali potrebbero aver subito una accelerazione a causa dei social media attraverso i quali è più facile mettere in comune idee, scambiare istanze sociali, far crescere la rabbia. Nondimeno la auto determinazione delle ragazze, il loro sacrificio pagato con la vita, meritano rispetto.
Occorre ripeterlo perché molte persone, anche fra quelle che per età hanno già visto sollevazioni simili in altri paesi del mondo, hanno bollato la rivolta come irreale e destinata alla sconfitta, senza alcuna considerazione per il sangue che scorre, soprattutto di donne giovani, giovanissime. L’esperienza non dà il diritto di diventare cinici ed è con preoccupazione e benevolenza, se non è possibile fare altro, che occorre guardare alle cronache, a volte terribili, che giungono dall’Iran. Anche la manifestazione del tutto pacifica, considerata da molti una sinecura, di tagliare la simbolica ciocca di capelli simultaneamente alle ragazze iraniane, deve essere rispettata come ogni altro simbolo che spontaneamente nasce dalla piazza, (vedi le scarpe rosse per il ‘femminicidio’). Intorno ad un tavolo a discutere le radici della protesta, la opportunità della richiesta di maggiori libertà, la cui necessità è fuori discussione; di quanto è profonda e motivata la cultura che informa la protesta del paese e quali sono, perciò, le prossime tappe della rivoluzione, si discuterà quando cesseranno le violenze e si arriverà alla possibilità di un confronto democratico, per il quale, certo, la strada è lunga.
Se le istanze delle donne iraniane sono in questo momento, e saranno, ispirate, dalle pseudo libertà femminili del mondo occidentale e quanto questo possa essere o no un abbaglio, saranno in grado di capirlo da sole, ma chi le giudica oggi, uomini e donne, dovrebbe già essere in grado di distinguere tra i ‘nostri conformismi’, fra cui quelli estetici, legati all’idea di una libertà di facciata, e la vera libertà, per esempio quella di poter esprimere le proprie idee senza repressione violenta, godere del diritto allo studio, alla auto determinazione riguardo la politica, la religione, la sessualità, la famiglia. Riconoscendo, però, che oggi, in Occidente, buona parte di questi diritti acquisiti, sono ritenuti negoziabili da nuovi politici e loro elettori, che ritengono possibile attenuarli in cambio di maggiore sicurezza sociale o di un ‘no’ deciso all’immigrazione.
In seconda battuta, una cultura che è informata profondamente dal velo, dal celare, per motivi religiosi o di pudore, tornerà sempre ad interrogarsi su quello che, più di un indumento, ha il significato di protezione, dignità, evoluzione: la dialettica resterebbe, pertanto, aperta ma in maniera finalmente corretta (come accade in Francia ed in India dove si protesta per indossarlo). Togliere il velo a Teheran, obbligatorio per le bambine dai 7 anni di età, mostrare noncuranza per la propria capigliatura, a cui è attribuito dalla cultura dominante un forte connotato sessuale, per questa giovane generazione di ragazze significa togliere di mezzo l’oggetto del contendere e perciò liberarsi. Togliendo il velo e tagliando i capelli, le ragazze cominciano col togliere al patriarcato l’effettivo oggetto dell’imposizione, il pretesto per dominare, per poi passare a combattere per altro, da qui la violenta repressione governativa. L’Italia conobbe questi passaggi quando molte ragazze cominciarono a negare che la perdita della verginità prima del matrimonio fosse un disvalore, motivo per cui non accettarono più di sposare colui che le aveva rapite e ‘disonorate’ (vedi processo a Filippo Melodia per il rapimento di Franca Viola, 1966), anche qui implicazioni di ‘costume’ ma, soprattutto, di potere maschile.
Non è accettabile che chi crede di sapere dove porterà la protesta possa tacciare questa rivoluzione femminile come inutilmente filo-occidentale e foriera di pseudo libertà che si fermerebbero a qualche mera concessione all’estetica. Non si muore per l’estetica, nemmeno tra le giovani occidentali che ogni anno soffrono di anoressia o altri disturbi solo in parte legati all’apparire, poiché anche quelli sono gli effetti visibili di dolori più profondi, capaci di dilaniare l’individuo. Zan, zendegi, azadi non è il grido delle sole donne iraniane. (Serena Grizi)
Immagine: particolare dal dipinto Banchetto musicale di Ibrahim Jabbar-Beik (1923-2002)
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