Le “pari opportunità”: conquista o fallimento?
Il nostro continua ad essere un ben strano Paese. In genere sia i media che l’opinione pubblica si interessano morbosamente di problemi gravi e trascendentali tipo…..Calciopoli, Vallettopoli, le regate della Vuitton Cup, Valentino Rossi che non vince più come una volta, ecc. Pochi anni addietro, invece, una ben più rilevante e fondamentale novità é passata virtualmente inosservata ed ancora oggi sembra addirittura che nemmeno esista: la pari opportunità tra uomo e donna é stata recepita tra i principi fondamentali della nostra Carta costituzionale. Poche righe distratte sono state in genere dedicate all’argomento, ancorché con plauso e soddisfazione, ma é di certo singolare che un tale evento non sia stato né preceduto né seguito – ancor oggi – con il massimo dell’interesse da parte della collettività e dei media. Diciamo la verità, per certi versi l’innovazione avrebbe dovuto generare non poche perplessità. Purtroppo si è trattato – almeno in linea generale – dell’ennesima concessione a quella colossale e odiosa forma di ipocrisia contemporanea più conosciuta come politically correct: un modo tutto formale per ridenominare con maggiore o minore eleganza faccende spinose o imbarazzanti ma senza incidere sul problema stesso. Quei pochi che si sono attardati sull’argomento hanno salutato l’evento come una conquista della civiltà ma – se permettete – a noi sembra più una sconfitta, anzi una resa e nemmeno troppo onorevole. Avremmo di certo esultato se la notizia ci fosse giunta da qualche Paese del Terzo Mondo o comunque con grosse tare pregresse in materia di diritti umani, ma c’é poco da rallegrarsi se invece l’innovazione nasce in una nazione occidentale che si vanta di sedere nel ristretto club del G8. «La Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini»: l’aver dovuto inserire questo precetto addirittura nella Costituzione (art. 51) significa soltanto che i rapporti interpersonali hanno fallito, che leggi ordinarie hanno fallito, che l’intera società ha fallito. Vuol dire ammettere che nessuna persona dotata di comune buonsenso ha saputo – o voluto – attuare quello che non é certo un principio giuridico, ma una di quelle norme elementari contenute nel diritto naturale, ossia lo stesso DNA della civiltà umana. Paradossalmente, fra l’altro, l’aver dedicato attenzione legislativa alla sola parità uomo/donna significherebbe (in pura teoria) che tutte le altre discriminazioni – etniche o quant’altro – sono ormai superate, mentre sappiamo di certo che non è così. Ma, in realtà, é già lo stesso concetto di “pari opportunità” a postulare l’esistenza strutturata di una intollerabile disparità (seppur addolcita dalla farisaica terminologia del politically correct) alla quale sono in primo luogo le coscienze dei singoli a non saper opporre resistenza. Ecco allora che, come sempre in certi casi, la nostra incapacità si risolve ancora una volta in una delega a qualcun altro: lo Stato-pater familias, ci pensi lui a mettere in riga i più birbaccioni. È stato istituito perfino un Ministero apposito, una struttura burocratica fatta di uffici, timbri, bolli, editti. Uno stuolo di “burosauri” per disciplinare col misurino del farmacista quote, precedenze, tutele, ecc., come se le donne fossero esemplari da riserva indiana o da WWF. Ma come si può!?! Quando uno Stato di diritto riceve troppe deleghe dai cittadini, specialmente quelle che più dovrebbero attenere alla sfera dei normali rapporti umani, può darsi che finisca suo malgrado col divenire di fatto uno Stato invadente e liberticida. A quando, allora, un Ministero per i Sogni nel Cassetto o un’Agenzia per il Primo Amore in Riva al Mare? A quel punto il governo delle menti (il Grande Fratello di Orwell) sarà già pienamente realizzato col pieno consenso delle “vittime” stesse, in modo indolore e – soprattutto – rigorosamente lecito “a norma di legge”. Tacito, nel suo De Germania, annotava ammirato l’austerità di quel popolo definito barbaro osservando tuttavia che ivi valevano assai di più i buoni costumi che altrove le buone leggi. Non per nulla, in un’altra occasione aveva pure magistralmente sentenziato “in corruptissima republica plurimae leges”: nel senso più ampio, vuol dire che il grado di declino di una civiltà è proporzionale alla quantità di leggi di cui ha bisogno per disciplinarsi. Forse dovremmo imparare a legiferare di meno e ad educare di più. In prima persona, senza deleghe e soprattutto senza la comoda copertura della burocrazia.
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