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“Le otto montagne”. Pensieri attorno alle esistenze e alle rocce

“Le otto montagne”. Pensieri attorno alle esistenze e alle rocce
Maggio 20
20:08 2023

Un film, forse, imperfetto e la sindrome di Heidi. Alla ricerca di un centro che non c’è, proprio oggi che molto sembra perduto nel rapporto uomo-natura

Le otto montagne, il film di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch è un’opera inquietante. Forse lo è anche l’omonimo il libro, non letto, di Paolo Cognetti le cui atmosfere potrebbero essere state trasferite sull’opera visiva. 

Però. Nel film si rappresenta un’amicizia, all’ombra d’una montagna ‘importante’ e pervasiva che lascia scorrazzare i suoi abitanti avanti e indietro restando assoluta padrona della scena e delle soluzioni belle o tragiche che potrebbe adottare per loro. L’amicizia di Pietro e Bruno è ferma come la montagna perché nata nell’infanzia e, più tardi, quando si vedranno molto meno, il cemento iniziale dell’affetto scambiato attraverso gli sguardi, i due non sono molto  loquaci, basterà per il labile ‘per sempre’ degli umani. Ad inverare quest’amicizia, visivamente, sono chiamati i due bravi attori Alessandro Borghi/Bruno e Luca Marinelli/Pietro già amici per la pelle in Non essere cattivo, amici nella vita, ma non è detto che risultino subito convincenti, pur nelle belle interpretazioni (eccezionale quella in dialetto di Borghi, un vero montanaro ombroso in confronto all’attore solare che si offre solitamente al pubblico). A qualcuno sembrerà quasi di rivedere nell’incaponimento di Bruno per la montagna e nella sua solitudine esistenziale (e non è il tentativo di dileggio d’un film, forse solo leggermente sopravvalutato), il dramma del cartone giapponese Heidi, ispirato alle storie della Spyri: un boccone amaro da mandare giù per chi, bambino, visse il dramma della ragazzina con gli occhi grandi che, per altro, finiva bene, mentre questo no; e Pietro oscillerebbe, invece, tra Peter, per giocosità e leggerezza, e il cane Nebbia, che quando le cose si fanno serie fa uno sbadiglio e va a sedersi da un’altra parte. È un paragone giocoso e ingeneroso, è chiaro, ma dalle scene del film, e occorrerà leggere il libro per comprendere meglio, è difficile trarre le ragioni dell’amore di Bruno per l’alpeggio, visto che per anni è stato fuori a fare l’operaio e ha visto anche girare qualche soldo in più, intravedendo una vita diversa; il suo adottare un’esistenza di solitudine contornato da vacche, alla quale anche il nonno e il padre avrebbero dato fuoco, continuando a restare un solitario anche quando avrebbe potuto essere marito e padre; il perché dell’amicizia dei due, che prendiamo per buona perché già abbiamo visto come e perché può crescere più che una solidarietà tra ragazzi nell’opera citata sopra di Claudio Caligari. Perché Pietro vuole bene a questo bestione taciturno il doppio di lui e perché scappa sempre per il mondo? (forse per aver chiuso anzitempo con un padre della generazione di quelli capaci di portare a casa i soldi senza saper fare i genitori e che poi, forse proprio per questo, vivevano una vita infelice nell’incapacità di manifestare davvero l’affetto, non avendo la forza di cambiare).

Dopo una fase destruens della trama potrebbero cominciare a delinearsi meglio i motivi seri che tengono in piedi la storia: molte cose nella vita accadono per caso; qualcuno cerca la nemesi per forza andando a scegliere ciò che sa essere più inadatto per se stesso; l’autore raccontava ciò che potrebbe essergli capitato, come la storia di un amico che ce la fa meno degli altri, o non ce la fa: trent’anni, o poco più, sono un’età adatta ai bilanci, a saper riconoscere inganni e illusioni dell’esistenza fino a quel momento vissuta, specialmente facendo i conti con i propri limiti. Se la vita di Bruno non fosse raccontata negli spiragli dei ‘ritorni a casa’ di Pietro tratterebbe d’una solitudine inenarrabile, i re-incontri a distanza di tempo evitano la didascalia. Ovvio, e mica tanto, che il film debba essere amato, o ben vissuto, da chi adora la montagna mentre chi vive con ansia quelle immense onde pietrificate che si stagliano su cieli azzurri, subisce con apprensione anche la vicenda sullo schermo: posseduta da un genius loci indifferente, oscuro (da leggersi nel significato etimologico) il quale, come Bruno quando finalmente sorride, rivela la propria parte ‘umana’, nel momento in cui si dissipano le nebbie, non nevica e la primavera colora i prati con le proprie magnifiche fioriture, compreso l’incredibile blu della genziana. Ma gli spiragli non durano che una stagione breve e tutto ricomincia difficile come prima.  La montagna resta la stessa, nei secoli, e questo è chiaro quando dopo molte riprese suggestive ma strette si scopre la vera posizione occupata dalla baita condivisa d’estate dai due: è sul fianco poderoso del monte, una ‘grinza appena diversa da quelle naturali, una ‘poca cosa’ di cui possono occuparsi solo dei poveri ‘finiti’ umani, fatta di pietra che la montagna ricondurrà a materiale primario per prossime future vite.

In questa immagine anche la difficoltà dell’uomo d’accostarsi alla natura senza risultare da subito in netta contrapposizione con essa, col malcelato pensiero di credersi forte, di dominarla: gli affetti, la famiglia, il lavoro rappresentano la labile durabilità umana che davvero nulla ha a che vedere con l’eternità della roccia; eppure è per questi affetti che si nasce e, qualche volta, si muore. Irriducibilità della ‘natura’, così come la chiamano ‘quelli che vivono in città’ come dice ironicamente Bruno in una scena del film. Uomini e donne, non del tutto artefici del proprio destino; incapaci anche di distinguere la differenza fra un alpeggio e un bosco, una forra o un picco, un ghiacciaio, anche solo per preferirne uno piuttosto che un altro. Eroici, invece, quando discostandosi dalla natura possono raccontare una storia, lasciare un segno culturale del proprio passaggio su questa terra e dire ciò che è stato. La montagna dei racconti è quella che si presta ad essere meglio abitata dagli umani, da tutti, non solo da chi vaga da cima a cima, avventurosamente, cercando un centro che forse non c’è. Con tutta probabilità uno dei migliori momenti storici per misurare la distanza fra uomo e natura, e con effimeri orizzonti di speranza. (Serena Grizi)

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