Le emozioni nella Filosofia e nella Psicologia – 1
Le emozioni si presentano come esperienze soggettive di intensità rilevante, sempre accompagnate da modificazioni di carattere fisiologico, comportamentale ed espressivo dell’organismo. Esse non sono mai neutre ma piacevoli (gioia, soddisfazione) o spiacevoli (paura, collera). Da un punto di vista strettamente filosofico, occorre rilevare che la storiografia per lungo tempo ha tralasciato di occuparsi delle emozioni considerandole irrazionali e vaghe e pertanto non indagabili scientificamente, anche se non necessariamente un oggetto vago comporta una trattazione vaga. La seconda ragione per cui le emozioni non hanno goduto di grande considerazione riguarda il loro essere classificate come troppo personali e pertanto non indagabili razionalmente. L’idea comune era che fosse più semplice comunicare una conoscenza piuttosto che un’emozione. In realtà gli stati emotivi sono tra i più comunicabili e facili da propagare.
Il filosofo Nicola Abbagnano (Salerno 1901-Milano 1990), storico della filosofia e teorico, ha operato una distinzione tra AFFEZIONE ed EMOZIONE. L’affezione possiede generalmente un’accezione negativa in ambito filosofico, non essendo sufficientemente ragionevole, ed è identificata con un atteggiamento passivo che comporta l’essere dominati dalla paura verso qualcosa o qualcuno. L’emozione in sé, invece, come spiega Abbagnano nel “Dizionario filosofico” è “ogni movimento o condizione per la quale l’animale o l’uomo avverte il valore (la portata o l’importanza) che una situazione determinata hanno per la sua vita, i suoi bisogni, i suoi interessi”.
La prima teoria incentrata sul tema dell’emozione è stata elaborata da Aristotele, secondo il quale ogni emozione è il risultato di un’affezione dell’anima accompagnata da piacere o da dolore: il dolore ha il compito di far comprendere all’uomo quale sia il valore del fatto o della situazione che egli si trova a vivere, e, come è spiegato nel “Filebo”, esso si prova quando l’armonia degli elementi che compongono l’essere vivente è minacciata o compromessa. Si prova piacere quando tal equilibrio è ripristinato.
Mentre per Aristotele, come del resto per Platone, le emozioni svolgono una funzione fondamentale per l’esistenza umana e sono quindi dotate di significato, non così è per gli Stoici. La dottrina stoica nega sostanzialmente il significato delle emozioni, sostenendo che la Natura ha provveduto e provvede in modo eccellente al bene degli esseri viventi, dotando gli uomini della ragione e gli animali dell’istinto; in questo quadro poco spazio resta alle emozioni, descritte alla stregua di “opinioni dettate dalla leggerezza”. Gli stoici riconoscono l’esistenza di quattro emozioni basilari: la brama dei beni futuri, la letizia dei beni presenti e altre due originate da mali presunti e cioè il timore dei mali futuri e l’afflizione dei mali presenti. Tre di queste emozioni-brama, letizia e timore-caratterizzano la figura del sapiente e si esplicano nella volontà, nella precauzione e nella gioia, stati di quiete ed equilibrio. Il sapiente, al contrario dello stolto, non prova afflizione per i mali futuri poiché obbedisce pienamente alla ragione. Il suo compito è di prendere coscienza della perfetta razionalità e praticarla in ogni occasione senza lasciarsi turbare da quelle opinioni vuote e prive di senso che sono le emozioni. I restanti stati emotivi sono considerati dagli stoici come malattie e infermità capaci di originare altre emozioni aventi come basi il desiderio o l’avversione.
Contrario a questo modo di vedere è Sant’Agostino d’Ippona (Tagaste, oggi Souk-Ahras, 354-Ippona, oggi Annaba 430), secondo il quale l’ideale stoico dell'”imperturbabilità” del saggio è inaccettabile. Infatti, egli nel “DE CIVITATE DEI” (XIV, 9) sostiene che “non provare il minimo turbamento finché siamo in questo luogo di miseria, non può essere senza una grande durezza d’animo e un grande istupidimento del corpo”. A suo modo di vedere le emozioni hanno carattere attivo e responsabile; ciò significa che ogni moto dell’animo umano altro non è che pura volontà: ne deriva che la cupidigia è volontà consenziente alle cose desiderate e la tristezza volontà che rifugge da situazioni o stati non voluti. (Continua).
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