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Le bugie nel campo letterario

Le bugie nel campo letterario
Aprile 08
19:01 2016

 

Qualche pessimista (ma i pessimisti vedono più concretamente degli ottimisti) afferma: «Con la fine della stroncatura è morta la letteratura» (e c’è pure la rima). Anch’io la penso così. Certe volte mi rileggo quel ‘velenoso ma salutare’ libro del dimenticato Giovanni Papini, Stroncature, sognando un mondo rinnovato dalla critica, e all’interno della critica stessa. Però, oggi, si va di male in peggio.

Seguitemi nel ragionamento (parla un uomo vissuto in tempi in cui il vaglio degli inediti veniva effettuato nelle case editrici; una volta scelto il libro da pubblicare, lavorava la vivacità dei lettori, ma anche la stampa, e soprattutto il campo critico: il sottoscritto è cresciuto presso il prestigioso editore Armando Armando, colui che – in decenni di tabù culturali dati dalla politica – ha avuto il coraggio di pubblicare in Italia Karl Popper osteggiato dall’intera penisola pavida ai diktat del partito ‘culturalmente dominante’, e con lui Makarenko, McLuhan, Sergio Hessen, Prezzolini, però anche i discorsi di Mao etc.).

Gli abbagli si sono presi pure 60 anni fa (vedi Elio Vittorini che ha bocciato Il Gattopardo), e poi in tempi più recenti (vedi Guido Morselli, morto suicida per la disperazione di essere rifiutato da tutti gli editori). Gli imbrogli hanno dato frutto anche in periodi relativamente lontani. Gli ‘sbagli’, tuttavia, quasi sempre contenevano una motivazione e, comunque, nessuno è perfetto e infallibile. Voglio dire: quello che era episodico, oggi è regola. Quando si aveva il coraggio di stroncare le cose che non valevano, la selezione avveniva, perché poi si pagava a caro prezzo la svista; e sono nati i grandi autori che ancora oggi ci attraggono per la loro forza di pensiero e la sapienza letteraria (Carlo Levi, Primo Levi, Moravia, Pasolini, Pavese, Bassani, Fenoglio, Domenico Rea, Ortese, Elsa Morante, Ignazio Silone, Gadda etc., ma anche i minori come Rocco Scotellaro, ad esempio, Jovine etc.). Ci sono state delle ‘sbavature’ (diciamo così), pure nei premi solenni, ma non tutti i critici tenevano l’acqua in bocca.

Ora mi vengono sotto mano due esempi, il primo dei quali fu ‘smascherato’ subito, anche se l’autore continuò a vendere e a vincere premi; il secondo dovette aspettare l’uscita dell’epistolario Carlo Levi – Linuccia Saba per essere scoperto. Mi spiego. Nel volume di Luciano Simonelli Un romanzo nel cestino (Edizioni Elle, Milano 1977), si legge di un autore di grande successo che, al fine di vincere un premio importante, si aggirava per Roma con cartelle cliniche e radiografie alla mano che documentavano una gravissima malattia, letale, e quindi la vittoria del guiderdone avrebbe reso per un attimo meno tragico il destino che lo attendeva. E vinse. E campò tanti anni ancora, fino alla vecchiaia continuando a fare il pieno di premi maggiori e minori (mi astengo in questa sede dal dare giudizi di qualità delle sue opere: ne ho riempito tante pagine di giornali e riviste a suo tempo). Simonelli addolcisce la pillola usando il verbo «si dice», ma aggiunge subito «è la verità». Non cito il nome del personaggio perché dalla settimana successiva al decesso ogni tv, giornali, rotocalchi, diverse librerie sono privi della sua presenza ‘ubiquitaria’ in vita: il silenzio della morte è sacro e non va violato. Così come non voglio violare un altro mezzo oblio post-mortem (appartiene al secondo esempio di come non bisogna fidarsi del successo immediato di un’opera, ma aspettare la selezione oggettiva del tempo), Si tratta di questo. Nel ponderoso volume che racchiude l’epistolario fra Carlo Levi e Linuccia Saba, Carissimo Puck (lettere d’amore e di vita – 1945/1969), edito da Carlo Mancosu, Roma 1994, alle pagine 438-439 della prima edizione, nella lettera 441 scritta in località Formentor nell’aprile o maggio 1962 (sede dell’omonimo premio internazionale di alto prestigio), si legge, a firma di Carlo Levi, che un ‘super noto iperimportante’ scrittore – contemporaneo dell’autore di Cristo si è fermato ad Eboli – raccomandava umilmente alla giuria del gran guiderdone, personalmente a uno per uno, la scrittrice giovane da lui stimata. Io lessi una precisa recensione di Costanzo Costantini su ‘Il Messaggero’ e comprai il testo, oltre tutto perché ero stato amico per dieci anni di Carlo Levi, di cui cercavo ogni cosa che lo riguardasse, ammirandolo sia come autore sia come uomo. Il volume Carissimo Puck, reperibile nelle biblioteche, ormai, è interessante anche per conoscere uno spaccato del nostro tormentatissimo Novecento. Ne raccomando la lettura.

Erano tempi in cui le ‘marachelle’ in campo letterario venivano scoperte, anche se giungevano a un pubblico ristretto, in quanto la pubblicità positiva aveva sempre la meglio sui lettori di massa. Insomma, lo spazio che oggi si dà agli scandali del ladrocinio o agli uxoricidi, ieri lo si concedeva anche alla letteratura, perché gli scrittori ricoprivano un posto importante nella società, mentre al presente sono stati messi in ombra dai calciatori, dai presentatori tv, dagli attori, dai cantautori e – naturalmente – dai politici. Allora, i milioni di copie che si vendono ancora? Non fanno né opinione né storia. Domenico Rea, trent’anni fa, mi diceva: «Caro Aldo, la figura dello scrittore è sparita, non conta più. Sono conclusi i tempi di un Pietro Aretino e di un Malaparte, di un Virgilio pagato da Mecenate e di un Ungaretti che commenta le riduzioni televisive dei capolavori in tv…». Aveva ragione. Ogni autore è sostituibile con altre ‘ombre’, oggi.

Dunque, l’eccezione di 60 anni fa, la raccomandazione e il maneggio, ha lasciato il posto a una regola che segue la ‘sapienza’ del mercato, l’oggetto di confezionatura adatta a una logica di vendita del prodotto indipendentemente dal valore di esso. Insomma, la letteratura ha fatto suo l’esempio della televisione: ha seguito l’indice di gradimento tralasciando l’indice di qualità.

Si è formato così un andamento che, abbandonando la cernita, ha puntato sulle vendite, le quali hanno obbedito alla pubblicità: tante recensioni preconfezionate (che non stroncassero nessuno dei libri prodotti dagli editori industriali di forza), premi più attenti al personaggio che all’autore, più obbedienti alle grosse Case che al concetto di selezione, spot televisivi, presenzialismo dello scrittore ad ogni costo. Così, il pubblico che talvolta non ha una sua capacità di discernimento, ha seguito queste false indicazioni, complici parecchi giornalisti, i critici appartenenti a una qualche potente cordata, non poche giurie dei premi, abbassando involontariamente (o volontariamente?) il gusto della scelta, il livello culturale, l’autonomia critica. È un danno grave alla civiltà, alla cultura, all’arte. Le bugie imposte dall’industria editoriale dovrebbero essere perseguite con ammonizioni e svelate pubblicamente affinché la turlupinatura, di cui paga le conseguenze il lettore sprovveduto, sia finalmente messa a nudo e cessi questo circuito pernicioso, in cui non ci si raccapezza più. Di solito, il tutto avviene a discapito delle opere valide, le quali, essendo complesse e di non facile consumo proprio perché nuove e originali, sono respinte dagli editori che – non di rado – inventano uno scrittore secondo criteri commerciali e compongono (o ricompongono) il suo libro sul tavolo dell’editing.

È un giro di bugie che gli addetti ai lavori scoprono facilmente, mentre gli sprovveduti abboccano all’amo, comprano il libro, si ‘autopuniscono’ se il tomo non vale niente (dicono: «Se ha vinto quel gran premio, se i giornali ne parlano bene, se la tv chiama gli autori a reclamizzarlo, sono io – povero incolto – a non capire il capolavoro»).

È un andazzo generale: tu lodi me, anche se non sei convinto; io premio te pure se non vali nulla. Infatti, diversi recensori si lamentano di ‘dover promuovere’ sul loro giornale qualche libro inutile, vacuo, noioso. Criticano in ‘camera caritatis’, ma in pubblico lodano, anche perché potrebbero pagarla cara in un mondo spietato come quello della letteratura (si corre il rischio di essere messi al cantone da chi è stato ‘offeso’ ed è il più forte, il più favorito).

Le bugie si pensava le sputassero solo i politici; invece, anche la parte definita nobile dell’umanità, cioè quella dell’Arte, della Creatività, le dice e come! Mettiamoci tuttavia nei panni dei critici: le stroncature non le accoglie nessun giornale. Tutto risente dell’andazzo generale, diciamo così senza indagare oltre. A loro volta, come possono i critici interni a una Casa editrice parlare male dei libri che essa stampa e diffonde? Infine, una noce nel sacco non fa rumore, e gli ‘stroncatori’ sono voci clamanti nel deserto. Oggi almeno.

Il danno è generale. Quando si abbassa il livello culturale di una nazione, siamo al tramonto: le ombre dei pigmei diventano giganti perché il sole è all’orizzonte della sera. Ed ecco il plauso alla mediocrità, la quale asseconda i gusti più bassi dei lettori (in senso di qualità, non di moralità: sarebbe un discorso fuori luogo) e vende copie su copie: questo importa. Nascono le cosiddette ‘montature’, tanto la gente non fa in tempo ad accorgersi di aver preso una fregatura, perché i libri hanno tutti vita breve: il nuovo sommerge e scaccia il vecchio (si parla di tre mesi, non di più), e se non esplodi nelle vendite entro un lasso di tempo ristretto, sparisci nell’oblio.

Riflettiamo insieme sulla fretta odierna, anticulturale, ‘antitutto’ (la bellezza ha bisogno di anni per essere prodotta, oltre che del genio, ma necessita pure di altrettanti anni per essere scoperta e apprezzata). Se Dante ha impiegato cinque secoli per venire riconosciuto in tutta la sua immensità, e lo stesso Shakespeare ha avuto bisogno del genio di Samuel Johnson per essere elevato al di sopra dei suoi contemporanei; se Bach ha dovuto aspettare cento anni per essere compreso (grazie a Felix Bertholdy Mendelssohn) e l’innovatore Van Gogh in vita ha venduto un solo quadro; se Lucrezio venne taciuto da Cicerone restando ai margini fino a tempi migliori; se Kafka è morto quasi inedito; se Italo Svevo è stato rifiutato dagli editori italiani anche dopo il successo europeo; se uno dei nostri massimi scrittori del Novecento, Federigo Tozzi, vende in dieci anni quanto una scribacchina qualunque vende in un giorno (ma poi viene dimenticata), eccetera eccetera; come può un libro scritto di fretta, edito oggi, essere applaudito oggi stesso? L’Arte richiede tempi lunghi, sia per essere realizzata sia per venire compresa. Dice Leonardo da Vinci che il tempo non terrà conto di quelle opere che non hanno tenuto conto di esso.

Allora, non ci scandalizziamo se libercoli vincono premi e sono recensiti (spesso obtorto collo, più spesso per il ‘do ut des’) da nomi che contano. C’è la logica di mercato, e ci sono cose (poteri occulti?) che a noi sfuggono. Ma l’andazzo è generale, l’errore di valutazione è quotidiano, lo svelatore dell’imbroglio non può parlare perché non gli danno i mezzi per poter ribattere alle bugie. Così, la storia della letteratura è finita, perché storicizzare un testo è compito dei critici onesti, liberi, coraggiosi. Ci sono, altro che, critici di vaglia, ma non sanno più districarsi fra migliaia di ‘capolavori’ sfornati ogni giorno dalla fertile Italia, in una lotta in cui si usano armi proprie e improprie per vendere, per emergere, per arrivare al successo che dura un giorno, in una lotta senza quartiere. Ecco perché la gente lascia la lettura spesso preferendo il cinema. Ha ragione. I veri narratori, i veri romanzieri, oggigiorno sono i registi. La settima arte ha dato le piste alla parola stampata. Questo mi obbliga ad una riflessione che penso sia importante: non manca il genio, non è venuta meno la creatività: essa si è spostata nel cinema, dal fertile Neorealismo in poi (fertile nella pellicola, mediocre o nullo nella letteratura). La prova del nove? Eccola: i film tratti dai romanzi odierni sono migliori della matrice; quelli tratti dai capolavori di ieri (specie dell’Ottocento) non raggiungono le vette della parola (vedi i tentativi della versione cinematografica dei Promessi sposi, di Tolstoi, di Dostoevskij, di Stendhal etc.).

Sono uno stroncatore? No: dico le cose come stanno. Non è il modo migliore per farsi degli amici, ma la verità (in questo caso l’onestà con se stessi e con gli altri) viene prima dell’amicizia e del tornaconto.

 

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