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Laboratorio di teologia laica e popolare

Settembre 09
15:50 2010

Che cosa è la teologia? Siamo sicuri di saper rispondere a questa facile domanda?
Un tempo la risposta si dava per scontata e forse non avrebbe avuto nemmeno senso porsi una questione del genere. La teologia – dal greco antico θεός, theos, Dio e λόγος, logos, parola – è il discorso, il ragionamento su Dio. La teologia era perciò al vertice di ogni disciplina, in quanto, il suo oggetto, Dio, era riconosciuto universalmente come la ragione di tutte le cose, tanto che nel medio evo ci si poteva coerentemente chiedere se un ateo potesse essere un buon matematico. Questo avveniva nel medio evo e oggi non avviene più perché la teologia è sì la scienza sovrana, ma a condizione che il mondo sia fondato sulla religione. E allora, per rispondere alla nostra domanda, vale la pena chiedersi rapidamente anche cosa sia la religione. È certo che il significato del termine sia quello che lega la religione al rapporto tra l’uomo e il sacro ed alla comprensione unitaria della realtà che ne scaturisce. Sebbene l’etimologia di “religione” sia incerta, fa scuola la ricostruzione di Cicerone, il quale trova in religio un derivato del verbo legere inteso nel significato di ‘cogliere o riunire’: re-ligione, significherebbe “cogliere insieme”. Il mondo religioso è un mondo in cui tutto viene riassunto dal significato dell’esistenza nel suo collegamento al divino.
Non occorre essere dei fini sociologi per constatare che oggi questo significato della teologia perde un po’ di smalto proprio perché il mondo religiosamente unito non esiste più. Questo c’entra poco o nulla con il fatto che altre religioni si siano affacciate nel mondo occidentale e che la compresenza di culti e credenze sia una realtà ormai data per scontata dalle nostre parti, con buona pace di nostalgici e fanatici di una non ben chiara salvaguardia dell’ “identità”. Al netto dei fondamentalismi, del devozionismo e del fanatismo, fenomeni pure non trascurabili, la contrapposizione non è tra ebreo e cristiano, tra islamico ed induista, tra credente ed ateo, ma tra chi intende fondare la propria esistenza su valori religiosi imposti evidentemente anche agli “infedeli” e chi invece crede nella convivenza possibile tra fede e laicità. Questa convivenza non significa che la visione laica e quella credente si ignorino, cercando di non darsi troppo fastidio. Al contrario: un mondo culturalmente laico nel quale sia possibile essere religiosi e laici è fondato sul tentativo di confrontare ragionevolmente le ragioni religiose con quelle di chi non le condivide. In ogni caso, semplificando, il fatto che non sia più possibile dare per scontata una visione religiosa del mondo non significa certo che viviamo in una società atea, ma che il credente, al contrario, è chiamato continuamente a dare ragione della propria fede, misurandola in ogni campo con una diversa concezione dei fatti e delle cose.
La scommessa di una “teologia laica” è quella di trasportare sul piano della riflessione teologica un metodo fondato sulla capacità di riflettere razionalmente ed in maniera condivisibile con gli altri su una condizione personale e sociale: quella di essere uomini religiosi! Questo metodo garantisce una condizione, a nostro avviso, fondamentale: avere il mondo come interlocutore privilegiato, sia nel pensare Dio, sia nell’esercizio di quella che si chiama “carità”; (perché) è proprio il mondo, l’altro, la socialità, il prossimo, l’interlocutore privilegiato del cristianesimo in quanto tale (Vito Mancuso, Filosofia.it, 9 febbraio 2010).

Alla luce di questa breve premessa, torniamo alla domanda: che cosa è oggi la teologia? La teologia rimane, almeno per il cattolico, lo studio su Dio. Questo studio, però, deve trovare un materiale da studiare sulla base dell’esercizio della ragione e di un metodo rigoroso alla luce degli odierni paradigmi. Molti teologi negli ultimi due secoli hanno tentato di descrivere un metodo che potesse corrispondere alle esigenze, oserei dire “scientifiche”, dei tempi moderni. In particolare dopo Kant si è tentato di attribuire alla teologia un metodo che potesse permetterle di confrontarsi con le altre scienze umane che rispondono a criteri di scientificità ed osservano fenomeni che avvengono nella griglia spazio-temporale. In questo senso la teologia è diventata sempre più “laica”. Non a caso uno dei più grandi teologi del secolo scorso, Karl Rahner, molto sensibile alle istanze del tempo, è stato chiamato ad insegnare teologia nell’Università laica di Monaco, mentre nelle aule accanto si insegnavano le scienze cosiddette “profane”.
Ora dobbiamo considerare che la teologia cattolica, perché chi scrive è formato da questa teologia, ha da sempre e storicamente avuto tre fonti o oggetti di studio: la “Rivelazione”, la “Tradizione”, l’ “Autorità”. Questi tre elementi sono più che sufficienti per il cattolico, semmai, in ambito cattolico, ad un successivo livello di riflessione, si può discutere su cosa sia effettivamente scritto in un brano biblico o come leggere autenticamente il testo di un documento conciliare, per questo la teologia si avvale di specialisti in esegetica, ermeneutica, storia etc. Tuttavia è chiaro che un non credente o un credente di altra religione non accetterà mai una discussione teologica basata su un elemento che è fatto proprio solo dal cattolico, sia esso un versetto del Vangelo, come pure un dogma di un Concilio. Dobbiamo per questo accontentarci di rispondere alla domanda su cosa sia la teologia solo limitandola ad una concezione non condivisa e non condivisibile da chi non si professi cattolico? In questo caso: la teologia sarebbe lo studio sul Dio nel quale credono i cattolici (o i luterani, gli ebrei, i mussulmani…), secondo le fonti che ciascuna religione crede ispirate da Dio. Non vi è dubbio che legittimamente e giustamente questa concezione della teologia, diremmo meglio delle teologie, sopravvive sia in ambito cristiano che nelle altre religioni. Molto spesso è confusa con il magistero, cioè con l’insegnamento delle gerarchie, ma ora non possiamo occuparci di questo.
Tuttavia, anche se ci rassegnassimo a questa definizione parziale troveremo uno spiraglio per un’indagine : la teologia è lo studio su Qualcosa nella quale credono degli uomini.
Ecco allora che emergono due elementi comuni a tutte le teologie: ci sono degli uomini che credono e c’è una fede intesa come atto del credere e come contenuto. Chi sono questi uomini che “possono” credere? Che cosa è questa fede? Proviamo allora a rovesciare la domanda, che ci siamo posti all’inizio: come è possibile, oggi, sviluppare un discorso su Dio?
È esattamente questo lo spunto dal quale parte il laboratorio di teologia laica, il quale, per prima cosa si propone di riflettere sull’opzione di fede. Chi è l’uomo che può decidere e decide di credere? Che cosa è la fede (cristiana)? Che cosa è la rivelazione? Che cosa è la rivelazione in assoluto e per il cristiano in particolare? Che cosa è la tradizione? Che rapporto c’è tra l’autorità e la libertà di ricerca teologica? Questa riflessione parte in maniera piuttosto pragmatica da una scelta già operata dall’individuo che si pone queste domande: quella di credere. L’uomo che si interroga, in questo caso, già crede. La sua onestà è quella di riflettere sul proprio atto e successivamente anche sul contenuto della propria fede a partire da una scelta già fatta, che è anche l’orizzonte di comprensione di quanto va a riflettere. Certo al cristiano basterebbe credere e semmai sviluppare i contenuti “creduti”. Sobbarcarsi la fatica di riflettere sulla propria fede è uno sforzo non necessario, ma quando si decide di compierlo si è ben consapevoli che si sta riflettendo sulla cosa più importante, il senso della propria esistenza. Solo al termine di questa riflessione ci si potrà chiedere: chi è Dio per noi? Chi è il Dio che si manifesta nelle nostre storie e che ci propone un cammino di redenzione e liberazione? Che rapporto c’è tra questo Dio per noi e Dio in sé?

Il laboratorio non ha alcuna intenzione di essere in contrapposizione al magistero ecclesiastico, anzi, chi lo propone è un cattolico convinto che ha studiato presso la Pontificia Università Gregoriana ed ha insegnato presso l’Istituto di Scienze Religiose dei Castelli Romani, tuttavia la scelta di riflettere sulla fede fuori dai locali di una Chiesa è un invito ad utilizzare la “ragion laica” per mettere in discussione radicalmente le ragioni della propria esperienza religiosa e di coglierne gli effetti nell’impegno concreto delle proprie esperienze quotidiane di relazione con gli altri.
L’invito è quindi rivolto a tutti, credenti e non, laici e (perché no?) sacerdoti, cristiani, ebrei, islamici: l’unico impegno richiesto è quello di mettere a disposizione le proprie forze per sviscerare le ragioni dell’esperienza religiosa che è in noi e della quale siamo chiamati a rendere ragione.

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Il laboratorio, della durata di 15 sedute, è gratuito e inizierà giovedì 7 ottobre 2010 presso la sede di Controluce in Monte Compatri, via Carlo Felici 18/20.
Il programma e le date sono consultabili visitando il sito dell’associazione all’url:

www.controluce.it

Orario del corso: dalle 18:30 alle 20:00
Info: Renato Vernini – renato.vernini@gmail.com

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LABORATORIO DI TEOLOGIA LAICA

SCHEMA DEI PRIMI DUE INCONTRI:

1. LA TEOLOGIA LAICA
2. LA TEOLOGIA COME STORIA, LE FONTI DELLA TEOLOGIA

1. LA TEOLOGIA: DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI TEOLOGIA LAICA?

Tutti sanno che la teologia è una disciplina presuntuosa: pretende di fare affermazioni su Dio! Se il teologo è serio, prima di spiegare agli uomini chi sia Dio, si pone altre domande: Dio può essere conosciuto dall’uomo? C’è bisogno di un “primo passo” da parte della divinità, quella che chiamiamo rivelazione, o l’uomo può essere capace di arrivare a Dio con le sue forze?

Una teologia laica può porsi la stessa domanda più o meno nei termini nei quali se la pone Karl Rahner nei suoi primi libri, scritti alla fine degli anni ’30 e ripubblicati, rivisti da Metz, negli anni ’60, Spirito nel Mondo e Uditori della Parola: come dovrebbe essere l’uomo per ascoltare una Parola eventualmente proferita da Dio?

Certo, la risposta a questa domanda dovrebbe essere più facile rispetto alla domanda classica che si pone la teologia: chi è Dio? E’ una risposta più facile perché l’uomo dovrebbe essere l’oggetto di conoscenza più vicino all’uomo stesso che si pone la domanda. Tuttavia la stessa opera dei teologici che con Rahner sono stati protagonisti della cosiddetta svolta antropologica e i millenni trascorsi da quando l’uomo ha cominciato a porsi domande su se stesso inducono a procedere con cautela. Sappiamo ancora troppo poco sull’uomo per utilizzarlo come campo base per la scalata alla conoscenza di Dio! Tuttavia è indubbio che, per rimanere nel campo alpinistico, se vogliamo scegliere un versante da scalare e non abbiamo la presunzione neanche di conoscere a fondo l’uomo, dobbiamo scegliere necessariamente un versante a noi più congeniale: questo versante è quello che parte dall’esperienza che l’uomo ha di Dio. Per ora l’abbiamo messa giù così, ma proverò ad arrivare a questo punto di partenza con un discorso un po’ più complesso.

Proviamo a mettere in campo subito un’altra ipotesi di lavoro: la teologia è la domanda che si pone su Dio l’uomo che postula l’esistenza di Dio e che ne ha avuto una qualche esperienza. Lo dico sinceramente: pur avendo una grande ammirazione di Karl Rahner, non mi è mai piaciuto questo suo voler sottolineare, sia pure come metodo di ricerca, l’eventualità che Dio abbia parlato. Esistono tanti modi di studiare il fenomeno religioso: quello storico, quello antropologico, quello psicologico, quello materialista di tipo riduzionistico…tutti metodi che non considerano la genuinità delle religioni, anzi, tendono a spiegarle riducendole, appunto, a qualcosa che le produce e che certo non è la divinità. Ad esempio per il marxista ortodosso la religione era una sovrastruttura necessitata dalla struttura economica, per altri sarà una proiezione di pulsioni primordiali, per altri sarà un’illusione dettata dalla paura della morte… Tutte questi approcci sono naturalmente più che legittimi, ma partono, se in buona fede, da un atteggiamento scientifico di neutralità dinanzi al fenomeno religioso. Semmai il sociologo, lo psicologo, lo storico fossero uomini religiosi dovrebbero mettere tra parentesi la propria fede ed occuparsi in maniera asettica dell’oggetto della loro indagine.

La domanda che si pone il teologo parte da un altro presupposto, esattamente quello dell’esistenza di Dio. Per partire da questa affermazione, l’esistenza di Dio, e cominciare ad interrogarsi su tale esistenza, il teologo non può prescindere da un’esperienza personale di Dio stesso. In fondo uno dei primi teologi è stato Mosè, il quale partendo dall’esperienza del roveto ardente pone a Dio la domanda delle domande:

Mosè disse a Dio: «Ecco io arrivo dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?» (ES, 3,13).

Quando dico che il teologo parte dalla sua esperienza di Dio non mi limito a dire quella che sarebbe un’ovvietà. Pensiamo al teologo standard che si forma in ambiente cattolico: in genere è un uomo, molto spesso un sacerdote che ha seguito un suo cammino di fede, spesso è entrato in seminario, ha studiato due anni di filosofia presso una pontificia università, ha conseguito il baccalaureato in teologia, poi altri tre anni di teologia per la licenza e poi probabilmente il dottorato. Diciamo dieci anni di studio dopo il liceo che si sono affiancati ad un percorso di fede, di frequentazione ecclesiale, di impegno pastorale. Tutto questo ha costituito un bagaglio a partire dal quale il teologo comincia a “pensare” in maniera scientifica la sua teologia. Molto spesso è uno specialista, sarà un’esegeta, uno storico, uno specializzato in ecclesiologia, un biblista…Diciamo che un teologo così formato è un “teologo ufficiale” per la Chiesa cattolica e spesso si trova a scrivere libri, ad insegnare a partire innegabilmente da quella che è la sua esperienza di Dio. Tuttavia, quando affermo che un teologo parte dalla sua esperienza di Dio intendo qualcosa di più profondo e che si trova alla base della possibilità di costruire quella che io chiamo forse impropriamente teologia laica e che sarà forse un concetto un po’ diverso da cosa intende con la stessa espressione Vito Mancuso, un teologo oggi alla moda, che ben costruisce un suo percorso di teologia laica all’interno della Chiesa cattolica. Cosa è allora questa esperienza di Dio? Quando parlo di esperienza di Dio provo a parlare di qualcosa più profonda ed intima che precede ogni altra conoscenza di Dio: è un’esperienza perché non ha un contorno delineato e concettualmente chiaro, eppure è il presupposto di ogni concetto. In questo senso è un’esperienza trascendentale in quanto, oltre ad essere l’esperienza della trascendenza, fa parte, kantianamente, della struttura necessaria alla conoscenza.

In termini scientifici, lo stesso Rahner, descrive in maniera insuperabile, anche se un po’ ermetica, questa esperienza che fonda ogni conoscenza successiva e che chiama esperienza trascendentale:

<<Perciò occorre mostrare che con questa esperienza trascendentale è già data come una conoscenza anonima e atematica di Dio, che quindi la conoscenza originaria di Dio non consiste nel cogliere un oggetto che si annuncia dall’esterno direttamente o indirettamente in maniera casuale, bensì che essa possiede il carattere di un’esperienza trascendentale….la conoscenza di Dio è già sempre data in maniera atematica e priva di nome, e non esiste solo dal momento in cui cominciamo a parlarne>> (Rahner, Corso Fondamentale sulla fede, Edizioni Paoline, 1990, pag. 41).

Tornando a parlare in termini un po’ più semplici possiamo riassumere: in questo laboratorio di teologia laica si comincia a parlare di Dio avendo come presupposto un’esperienza personale di Dio stesso. Questa esperienza non è dovuta al fatto di aver “compreso” qualcosa di Dio, giacche Dio non si può com-prendere, semmai è Colui che ci prende, ne’ di appartenere a questa o quella chiesa o addirittura di non riconoscersi in alcuna chiesa. Questa esperienza intima e trascendentale è la base dalla quale cominciamo a porci delle domande su Dio e sul nostro rapporto con lui.

Solo per un attimo vale la pena di seguire ancora Rahner nel suo percorso del Corso Fondamentale, la sua opera matura e probabilmente l’ultima Summa Theologica cattolica a nostra disposizione. Accanto a questa esperienza di Dio, che non abbiamo difficoltà a chiamare esperienza trascendentale, esiste una conoscenza a posteriori che deriva dal mondo. Si noti bene che, almeno per quanto mi riguarda, al mondo appartengono anche gli insegnamenti delle chiese, le riflessioni dei nostri maestri, la frequentazione dei nostri amici, le emozioni, i libri che leggiamo. Tutto questo bagaglio di informazioni e di esperienze ci porterà a fare delle ulteriori riflessioni che avranno dei contenuti, si esprimeranno in concetti comunicabili e confutabili. In termini tecnici: non saremo più su un piano trascendentale, ma ci saremo trasferiti in un altro universo, quello del concetto elaborato a posteriori.

Un’ultima considerazione: perché l’uomo possa provare quella che con Rahner abbiamo chiamato esperienza trascendentale è necessario che in qualche maniera sia costruito per farlo. L’uomo vede perché l’evoluzione lo ha dotato di un sistema complesso formato dagli occhi, dal nervo ottico, etc. Il gatto vede, ma in maniera diversa. Da una parte, quindi, possiamo affermare che l’uomo è orientato a Dio, diremmo che possiede un sistema operativo, predisposto in qualche maniera ad accogliere la Parola di Dio, d’altra possiamo affermare che solo facendo girare il software, vivendo la nostra storia, conoscendo e frequentando il mondo, possiamo conoscere concettualmente, Dio. Conoscere Dio ed esprimere questa conoscenza per concetti significa tentare di rispondere alla domanda di Mosè, significa tentare di dare un nome a Dio. Ora è anche ovvio e scontato che questa seconda fatica non è necessaria, anzi secondo alcuni è anche dannosa alla fede stessa, per altri, invece, è una fatica dettata naturalmente dal desiderio di provare a conoscere quanto più possibile su Dio stesso. Non solo, se Dio esiste, se la sua esistenza dà significato al nostro mondo, alla nostra storia, dobbiamo tentare di capire ancora di più di Lui e del suo rapporto con gli uomini, in quanto la nostra storia, la nostra vita non può rimanere indifferente a questa esistenza divina. Infine se Dio si comunica nella storia e non solo con le parole, ma, per il cristiano, con l’avvento del suo figlio nella storia, non ci possiamo accontentare di comunicare Dio per concetti, ma anche e soprattutto possiamo e dobbiamo parlare di Lui attraverso le nostre storie di liberazione e di redenzione, perché è evidente in tutto il Nuovo Testamento la necessità non solo di ascoltare la Parola, ma anche di “metterla in pratica” (cfr. tra gli altri LC 8,21: «Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica»).

Il teologo laico è l’uomo che sulla base della propria esperienza trascendentale comincia a farsi domande su Dio e sul significato che questa parola ha nella sua storia e nella storia degli uomini, contemporaneamente tenterà di tradurre nella sua quotidianità quello che la sua ricerca lo porterà ad ascoltare. Tuttavia non va dimenticato che questo sforzo trae origine e non deve perdere di vista una fatto: già sappiamo che esiste nelle nostre vite la parola Dio e che questa parola dà un senso a tutte le altre.

2. IL MATERIALE SUL QUALE SI FONDA LA CONOSCENZA DI DIO IN AMBITO CATTOLICO

Per il cattolico esistono tre tipi di conoscenza di Dio:

a) Una conoscenza naturale, che come affermato dal Concilio Vaticano I (DS 3004) può portare alla conoscenza di Dio con il solo lume della ragione;
b) Una conoscenza di Dio attraverso quello che la Chiesa cattolica considera la Rivelazione;
c) Una conoscenza di Dio attraverso la sua azione liberatrice e salvifica nella storia dell’umanità e dei singoli uomini.

Per quanto riguarda il primo punto, la cosiddetta conoscenza naturale di Dio, a questo punto dovrebbe essere chiaro che non dobbiamo far riferimento solo all’uomo che si mette a pensare e giunge a comprendere la necessità, oltre che la possibilità, dell’esistenza di Dio. Non dobbiamo limitarci a far riferimento, tanto per citare i due casi più eclatanti, alla prova ontologica di Sant’Anselmo o alle cinque vie di San Tommaso. La conoscenza naturale di Dio parte proprio dall’ esperienza trascendentale di Dio a cominciare dalla quale conosciamo Dio stesso e il mondo. Per quanto concerne, invece i secondi due punti, dei quali ci occuperemo immediatamente, dobbiamo precisare che la Chiesa cattolica, con una forte accelerazione nel Concilio Ecumenico Vaticano II, tende sempre più ad assimilare la storia della Rivelazione e la storia della Salvezza, comprendendo nel concetto di Parola di Dio l’interpretazione che la stessa Chiesa cattolica ne ha fatto.

Precisiamo meglio questo punto soffermandoci sul tema classico che riguarda le fonti della teologia cattolica: la “Rivelazione”, la “Tradizione”, l’ “Autorità”. Vediamo velocemente di cosa stiamo parlando.
Per quanto concerne la Rivelazione è evidente che stiamo riferendoci ai libri che gli uomini hanno considerato ispirati da Dio. E’ altrettanto evidente che questo concetto si apre a due problematiche fondamentali: a) chi decide che un libro sia ispirato da Dio; b) come si legge un libro ispirato da Dio. Rimanendo nel campo cristiano: i cattolici considerano che il dato rivelato sia quello delle Scritture, ma letto ed interpretato alla luce della tradizione cristiana (cfr. la Costituzione Conciliare Dei Verbum), mentre genericamente possiamo dire che per le Chiese riformate vale il principio del sola scriptura, ossia che solo la scrittura ha un potere normativo e salvifico. Tale principio, naturalmente, ha avuto all’origine delle implicazioni politiche, non a caso Lutero afferma: <<un semplice laico armato con le Scritture è più grande del più coraggioso papa senza essa>>. Tuttavia è evidente che il principio pone una distanza netta tra ciò che la Chiesa cattolica, con essa la sua teologia, intende per rivelazione e cosa ne pensi in proposito la Chiesa riformata.
Inoltre tra tutte le Chiese e talvolta all’interno delle singole confessioni esiste un problema di “canone”, cioè di scelta dei libri considerati sacri. La parola “canone” deriva dal greco κανὡν (kanon), la canna, il bastone diritto che serviva a misurare la lunghezza. Ora come si stabilisce l’unità di misura per eleggere a Parola di Dio uno scritto d’uomo? Tra Chiesa cattolica e Chiese riformate il canone è diverso, come è stata diversa la scelta operata da cristiani ed ebrei: ovviamente questo vale per il Nuovo Testamento, ma anche i libri dell’Antico Testamento ammessi nel canone non sono gli stessi per ebrei e cristiani, non sempre, infine, gli ebrei hanno mantenuto lo stesso canone. I cristiani, d’altra parte sono divisi non solo sul modo di leggere la rivelazione ma anche su quali libri considerare sacri, con i protestanti che generalmente, per l’Antico Testamento, adottano il canone ebraico e non quello cattolico. Gli ebrei chiamano la Bibbia Tanakh, TNKh, che è un nome privo di significato in quanto è un acronimo formato dalle iniziali delle parti che raggruppano i 36 libri ispirati da Dio:
• Torah (La Legge; sono i libri del Pentateuco)
• Neviim ( Profeti)
• Ketuvim (Scritti)
Tuttavia, già gli ebrei si dividevano: i sadducei, consideravano sacra la sola Torah, mentre i samaritani includevano nel canone solo il Pentateuco e il libro di Giosuè e si differenziavano dagli ebrei della diaspora, che parlavano greco e che includevano nel canone alessandrino tutti i libri tradotti dall’ebraico al greco nella versione detta dei settanta. Solo alla fine, nel I sec. DC, prevalse la sintesi nel canone palestinese.
Naturalmente la maggior parte delle chiese nate dalla Riforma include nel canone il Nuovo Testamento, seppure con qualche differenza, ma per l’Antico Testamento segue il canone ebraico. La Chiesa cattolica e quelle ortodosse seguono, ma non fedelmente, il canone alessandrino. Insomma, solo in ambito cristiano, sulle fonti della rivelazione, per quanto riguarda i libri considerati “ispirati”, ci sarebbe molto da dire. Evidente è la differenza con gli ebrei che non riconoscono il Nuovo Testamento, ancora più netta quella con i mussulmani che attribuiscono il valore di libro ispirato al Corano.
La situazione peggiora ulteriormente se ci occupiamo di quella che è considerata la Tradizione cristiana. Intanto, già parlando di libri sacri, troviamo un intreccio tra tradizione e scrittura, infatti è ormai accertato dall’esegesi e dalla storia che gran parte del Nuovo Testamento è nata da un complesso di “notizie” trasmesse per qualche generazione dalla predicazione degli apostoli alle comunità cristiane e redatte nella forma che conosciamo solo successivamente.
Nella elaborazione cattolica gli ultimi due Concili (Vaticano I e Vaticano II) hanno fornito una sistemazione dottrinale a quanto si considera tradizione. Nella teologia cattolica la tradizione è la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, nell’atto in cui perpetua e trasmette a tutte le generazioni “tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede” (Concilio Vat II, Dei Verbum 8). Naturalmente tutti i cristiani che non considerano propria la storia della Chiesa cattolica non possono accettare il materiale fornito dalla tradizione cattolica al fine della elaborazione teologica. Figurarsi poi per i non cristiani, quanti potrebbero dialogare con teologi cattolici se questi si ostinassero a considerare inattaccabile il materiale della tradizione così come disegnata dal Concilio Ecumenico Vaticano II? Ma anche il teologo cattolico si deve porre la domanda che riguarda il travaglio storico attraverso il quale si è consolidata la tradizione cattolico-romana. I Concili ogni volta hanno sancito divisioni, scismi, apostasie, spesso il potere politico ed anche militare dei papi e degli imperatori hanno segnato delle scelte teologiche e dottrinali. Pensiamo al dogma dell’ infallibilità del papa proclamato dal Concilio Ecumenico Vaticano I: pur riferendosi ai soli pronunciamenti ex cathedra, non è stato proclamato in risposta alla minaccia alla quale era sottoposto il potere temporale dei papi?
Molta della teologia si risolve nella interpretazione di quella che la Chiesa considera Rivelazione. Tuttavia, come abbiamo appena accennato sopra, per i cattolici, a differenza di quanto accade per la scuola protestante, il dato rivelato è sì quello delle Scritture, ma lette alla luce della tradizione cristiana (cfr. la Costituzione Conciliare Dei Verbum). Anche quindi per la teologia che si occupa essenzialmente della Scrittura, lo sforzo di produrre concetti teologici, anche solo esegetici, è di primario interesse. Le strade seguite dai teologi nel loro sforzo sono state diverse: la via della negazione si spinge a descrivere Dio negando tutto ciò che Dio non può essere. Così, ad esempio, negandone l’imperfezione si afferma la necessità che Dio sia perfetto. Negandone la cattiveria si afferma la bontà. La via più battuta nel cercare di definire le qualità di Dio è stata per tanto tempo quella dell’analogia: la via che conduce ad affermare di Dio qualcosa che sia inteso in un significato solo appena riconducibile alle realtà terrene. Così dicendo che Dio è buono lo facciamo per analogia alla bontà degli uomini, sapendo che la qualità che andiamo ad affermare di Dio è solo qualcosa che negli uomini si trova appena accennato, una traccia di quanto vogliamo dire su Dio. La teologia è quindi stata spesso legata alla storia delle filosofie che l’hanno accompagnata nella sua evoluzione.
Le teologie tradizionali che hanno lavorato su concetti ed elaborato una verità esterna al soggetto sono state teologie metodologicamente inadeguate al dialogo non solo con le altre religioni ma anche con le altre teologie di diversa scuola. La contrapposizione storica in ambito cattolico riguarda la filosofia di derivazione aristotelica utilizzata dal tomismo e dai domenicani con la teologia più sensibile al platonismo ed all’insegnamento di S. Agostino, fertile tra i francescani. Un esempio classico della contrapposizione tra queste due eredità filosofico-teologiche è data nelle figure, coeve, di Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoreggio. Le loro teologie, il vertice delle teologie medioevali, si fondano su presupposti filosofici che stanno agli antipodi: il primo segue la linea di Aristotele, il secondo la linea di Platone-Agostino. Entrambe le teologie sono considerate dalla Chiesa ortodosse, entrambe si alimentano nella tradizione, tanto che lo stesso Tommaso cita ripetutamente proprio Agostino, ma non vi è dubbio che sono gli esempi di metodi teologici, sensibilità ed anche contenuti estremamente diversi. Per dirla con Kuhn, sul quale torneremo, sono teologie fondate su paradigmi diversi.
La teologia moderna è andata oltre a quanto aveva ereditato dal passato sopratutto nel metodo. Per la teologia del XIX secolo la grossa contraddizione risiede nel fatto che la teologia lavora comunicando concetti, mentre la fede (che è l’esperienza sulla quale riflette la teologia) attiene ad un qualcosa che è al di sopra e prima dell’espressione di un concetto. L’esempio più calzante è sempre quello degli innamorati: se noi chiedessimo a due innamorati cosa li fa essere innamorati dell’altro, o anche più semplicemente se chiedessimo ad una ragazza o ad un ragazzo: “cosa ti piace di chi ami?”, ricaveremmo nella grande maggioranza dei casi risposte confuse. I nostri interlocutori, comunque, saprebbero già di esprimersi con parole inadeguate alla loro esperienza d’amore. Non a caso la scorciatoia intrapresa dal desiderio contemporaneo di religiosità e che possiamo indicare genericamente con il nome di new age è un tentativo, a volte maldestro, di ricondurre l’esperienza religiosa a forme originarie e non mediate da concetti. La comunicazione delle vie a Dio proprie della new age è problematica e spesso assume contorni esoterici, ma l’esigenza dalla quale si muove è più che legittima (Cfr. lo studio del PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA CULTURA PONTIFICIO CONSIGLIO PER IL DIALOGO INTERRELIGIOSO, GESÙ CRISTO PORTATORE DELL’ACQUA VIVA, Una riflessione cristiana sul “New Age”,
http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/interelg/documents/rc_pc_interelg_doc_20030203_new-age_it.html

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