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Labicanus

Giugno 08
13:14 2014

Una notte di fine estate dell’anno 783 ab urbe condita, nell’ Arx Antonia regnava un’insolita calma. In assenza dei ricorrenti tumulti, i legionari dormivano. Vegliavano soltanto le sentinelle ed il centurione Iustus Primus, che, però, tutti chiamavano Labicanus. La sua mente era occupata a ricordare le innumerevoli battaglie combattute,le interminabili marce attraverso le più diverse provincie dell’impero, la gioia dopo le vittorie, l’amarezza e la rabbia dopo le sconfitte, le stragi ed i massacri visti sia dopo una vittoria sia dopo una sconfitta. Aveva scelto questa vita per far vivere decorosamente sua moglie e suo figlio e per tenere i popoli nemici il più lontano possibile da Roma e dalla sua famiglia. Oltre che per tali pensieri, non riusciva a dormire soprattutto perché all’alba del giorno seguente sarebbe partito per far ritorno per sempre a casa.
E poi pensava ai legionari della sua centuria che avrebbe lasciato. I suoi legionari provenivano, per scelta, dalle regioni dell’Italia centrale ed in maggioranza erano Latini, Sabini, Umbri e Sanniti.
La centuria era come un guerriero armato con ottanta daghe, ottanta scudi e che aveva una sola testa: la sua.
In battaglia i legionari cercavano di non perdere mai di vista le piume rosse dell’elmo di Labicanus e, ormai, capivano da uno sguardo o da un cenno i vari comandi che significavano la loro salvezza. Era conosciuto da tutte le legioni per il suo valore. Tutti avrebbero voluto far parte della sua centuria. Per questo i suoi ottanta legionari ne erano orgogliosi e si ritenevano fortunati. Anche i nemici in battaglia cercavano di evitare lo scontro con la centuria di Labicanus.
All’alba era già in piedi e si avviava verso il cavallo quando fu sorpreso e felice di vedere tutti i suoi legionari che lo aspettavano schierati per un ultimo saluto.
“Senza la tua guida moriremo tutti” gridò un giovane legionario. Rivolgendosi a tutti allora Labicanus ordinò: “Non dite idiozie! Seguirete il nuovo centurione come avete sempre seguito me. I centurioni cambiano ma non cambierà mai Roma, per la quale combattete”.
Lasciò Hierosolyma cavalcando velocemente verso Caesarea da dove si sarebbe imbarcato per l’Italia.
Verso sera si fermò in una taberna per mangiare e dormire col proposito di ripartire presto all’alba. Invece la mattina seguente si svegliò tardi .Prima si arrabbiò con se stesso poi diede la colpa al vino che la sera prima gli era stato offerto da alcuni giudei.
Quando giunse a Cesarea la sua nave era già partita.
Aspettò un’altra nave e si imbarcò
Il mare non era il suo elemento naturale, poiché si sentiva sicuro soltanto sulla terra ferma, pertanto dormì e si riposò per quasi tutto il viaggio.
La nave attraccò finalmente alle foci del Tevere. Qui apprese che la nave partita da Caesarea prima della sua non era mai arrivata. Provò la stessa sensazione di quando in battaglia, per caso, si fa un passo a destra e nello stesso istante la freccia che era diretta al petto sfiora il fianco sinistro e si conficca in terra.
Proseguì a cavallo seguendo il fiume finché si sentì abbracciato da Roma come da una madre. Conosceva tutte le strade, le case gli edifici pubblici. Gli piaceva stare tra la folla. Si fermò presso un thermopolium per riassaporare gli aromi e i gusti della città. A Roma, da giovane, era solito recarsi quattro o cinque volte al mese con gli amici.
Dopo aver attraversato l’ operoso e chiassoso Foro, si diresse all’inizio della via Labicana che, dopo circa centoventi stadi, conduceva a Labicum Quintanensis.
All’ingresso del villaggio fu circondato da un gruppo di concittadini che volevano salutarlo. Fu costretto a scendere da cavallo e ben presto si formò un corteo. Tutti gli chiedevano notizie, curiosità, lo invitavano a cena. Soltanto dopo circa un’ora e dopo aver promesso a tutti di accettare gli inviti dicendo “Sono tornato per sempre, avrò molto tempo libero “, riuscì ad arrivare alla sua abitazione dove lo attendevano la moglie Amata ed il figlio, che in onore del primo e, per lui, mai più eguagliabile imperatore, aveva chiamato Augustus.
Non gli sembrava vero quella sera di stare a cena con i suoi e mangiare quei cibi che avevano il sapore della sua terra e della secolare tradizione latina.
Durante la cena Amata iniziò a raccontargli tutti i fatti nuovi che erano accaduti in città, ad aggiornarlo su come aveva amministrato i beni ed il denaro che gli aveva consegnato l’ultima volta che era tornato e ad esporre i progetti che avrebbe realizzato con quello che le aveva appena consegnato. Ma a lui non occorrevano questi resoconti in quanto sapeva benissimo che sua moglie sapeva amministrare la casa molto meglio di come avrebbe egli stesso fatto.
Inoltre Amata fece un elenco di tutto ciò che avrebbe voluto fare nei giorni seguenti con il suo aiuto. Labicanus disse, come sempre, di si a tutte le richieste anche se non ne aveva affatto voglia.
Dopo qualche giorno di completo e piacevole ozio, il figlio gli manifestò il desiderio di poter andare a caccia insieme a lui .Sicuro della risposta, già aveva predisposto tutto per il mattino seguente.
Non appena cominciò ad albeggiare dietro Praenestre, si diressero a meridione verso i vicini monti .Iniziarono a salire per un sentiero tra boschi, rovi e canneti finché arrivarono ad una sorgente di acqua leggera e fresca che sgorgava in mezzo a dei lauri. Riempirono le otri e proseguirono salendo per una ombrosa gola tra due scoscese pareti ricoperte di boschi. Alla fine della salita arrivarono in un ampio pianoro di prati e cespugli. Qui si appostarono in attesa del passaggio della selvaggina. Non trascorse molto tempo che un giovane cinghiale attraversò il prato. In un attimo fu raggiunto da due frecce scagliate con forza ed estrema precisione. Dopo una scherzosa e lunga discussione giunsero alla conclusione che non era possibile stabilire quale freccia era riuscita per prima ad abbattere il cinghiale.
Caricata la preda sul cavallo, si diressero verso la cima del monte che sta a settentrione del pianoro e che resta isolato dalla corona degli altri monti.
La cima era formata da un grande masso che era stato modellato con antichi attrezzi fino a conferirgli la forma di un quadrilatero, sicuramente per formare le fondamenta della torre più alta delle mura. Intorno si notavano rovine tra cui i resti di un architrave della porta dell’ antica città distrutta.
“Questo è un sito strategico. “disse Labicanus al figlio. “Si controllano facilmente tutte le manovre che un nemico avesse intenzione di fare. Quei Monti che si ergono dalla pianura ad oriente sono quelli abitati dagli Ernici e quella è Praenestre. Più a settentrione si vede il nostro villaggio, poi Gabi, Tibur e Nomentum, i monti abitati dagli Equi la Sabina e l’Etruria Meridionale. Tra settentrione ed occidente si vede tutta l’immensa città di Roma circondata dalla verde campagna ed il mare che brilla all’orizzonte.
Ci accamperemo qui. Staremo benissimo. Ora mangiamo un po’ di quel formaggio di pecora, che abbiamo portato da casa, e i frutti di quei rovi. Questa sera ceneremo con parte del cinghiale. Naturalmente se sarai capace di accendere un fuoco che formi molta brace”. Sorridendo il figlio gli rispose: “In città, per cuocere i cibi e scaldarci dobbiamo aspettare sempre che torni qualche comandante di centuria “
Mentre mangiavano all’ombra di un grande leccio, di poco sottostante la cima del monte, sul versante da dove si può osservare la grandezza e la bellezza di Roma, Augustus gli chiese: “E’ questo il monte su cui sorgeva la città dei nostri avi e che ora chiamano Mons cum Patribus perché veniva frequentato dai Patres Senatores ? Come si svolsero i fatti e perché la città fu distrutta da Roma se veramente, per lungo tempo, era stata fedele alleata ed unica vera amica dei romani?.”
Labicanus con la schiena appoggiata al tronco del leccio iniziò il racconto invitando il figlio a fissare bene nella mente la storia affinché potesse un giorno raccontarla, a sua volta, ai propri figli.
“Prima ancora che Romolo tracciasse il solco di Roma su questo monte già esisteva la città di Labicum. Per quei tempi, Labicum era un ricco villaggio. Numerosi greggi e mandrie pascolavano nei territori montani e rigogliose vigne e ricchi frutteti si estendevano nei terreni a valle fino alla pianura. Un forte esercito proteggeva la città e nessun popolo vicino osava misurarsi con la legione dai scudi dipinti. I labicani furono i primi ad allearsi con la nuova città chiamata Roma e si adoperarono affinché questa entrasse a far parte della Lega latina. Capirono che aiutando Roma ad arginare gli Etruschi, Roma poteva aiutarli ad arginare gli Equi.
Era sufficiente un fuoco acceso sul Capitolium per far scendere l’esercito labicano in aiuto a Roma ed un fuoco acceso sulla cima del monte per far salire l’esercito romano in aiuto a Labicum. Durante l’estate spesso i Senatori Romani erano ospiti dei Labicani, come durante l’inverno i Senatori Labicani erano ospiti dei Romani.
Per secoli durò questa fraterna alleanza finché un giorno, a seguito di qualche incomprensione, cattivi consiglieri, sia nel Senato Romano, sia nel Senato Labicano, suggerirono l’opportunità di una guerra.
Come l’odio tra fratelli è più profondo dell’odio tra estranei perché ci si sente traditi nel vincolo di sangue, così la guerra tra Roma e Labicum fu più cruenta delle altre.
Dopo un lungo assedio e gravi perdite di uomini e mezzi da ambo le parti, Roma riuscì a distruggere Labicum. La gran parte dei Labicani riuscì a fuggire ed a rifugiarsi nei circostanti boschi dove sapevano come vivere di caccia. I territori labicani a valle furono distribuiti a 1.500 veterani romani. Questi ben presto capirono che per sfruttare al meglio quei terreni sconosciuti avrebbero avuto bisogno dei vecchi proprietari.
Richiamarono i Labicani superstiti e, dopo aver riconosciuto che la guerra tra Roma e Labicum era stato l’errore più stupido mai commesso, insieme fondarono la nuova città che fu chiamata Labicum Quintanensis.
Non erano passati neanche tre decenni da quei fatti che Roma fu attaccata da Brennus, re dei Galli Senones. Prima della battaglia decisiva i legionari romani invano volsero lo sguardo verso Labicum rimpiangendo i tempi in cui i valorosi guerrieri dagli scudi dipinti scendevano in aiuto al loro fianco.
La battaglia fu persa e Brennus saccheggiò Roma. Alcuni Senatori furono uccisi, altri fuggirono e si rifugiarono su questo monte dove, sulle rovine della città distrutta qualche anno prima era stata costruita una piccola fortezza militare. Ecco per quale motivo chiamiamo questo luogo Mons cum Patribus.
In seguito fortunatamente i Romani riuscirono a scacciare i Galli e da allora mai più nessun nemico è entrato vincitore a Roma.”
Man mano che il sole scendeva lontano dentro il mare illuminando i bianchi edifici di Roma, l’aria diveniva sempre più fresca finché, anche se l’autunno era appena iniziato, divenne gradevole stare vicino al fuoco acceso per arrostire la carne .
Labicanus sezionò il giovane cinghiale prendendo, per la cena, le parti più dure. In un sacco ripose le parti migliori e più tenere per riservarle alla moglie anche se già sapeva che questa gli avrebbe detto: “Io non mangio questa schifezza”
Arrostirono la carne dopo averla bagnata in un infuso di vino e foglie di alloro e ne mangiarono a sazietà.
Dopo la cena ravvivarono il fuoco con altra legna e prepararono i giacigli per la notte.
Ormai era notte ed il buio della campagna sottostante era costellato da piccole luci emanate dai fuochi delle case rurali. Un tenue ed esteso chiarore si rifletteva nella foschia in cui era immersa Roma.
Era presto, però, per dormire anche perché su quel monte si stava benissimo, immersi nella natura e nello stesso tempo vicini alla Città più grande del mondo. Allora Augustus chiese a Labicanus di raccontargli le battaglie, le imprese, e gli onori che recentemente aveva ricevuto con la sua centuria.
Labicanus, dopo aver riflettuto un attimo, gli disse: “Oggi non ti racconterò le solite imprese militari ma una strana storia di un condannato a morte.
Una mattina della scorsa primavera mi giunse improvvisamente l’ordine impartito da Pilatus di recarmi immediatamente con la mia centuria all’esterno della fortezza in quanto c’era pericolo di una sommossa popolare. Arrivammo con tale irruenza che la folla ammutolì e fece trenta passi indietro. Mi accorsi che i notabili giudei avevano consegnato al prefetto un uomo affinché lo giudicasse e lo condannasse a morte. Quando si voltò lo riconobbi. Era un predicatore su cui già avevo indagato per ordine di Pilatus mischiandomi con abiti civili tra la folla che lo seguiva e, poiché, tra gli altri insegnamenti che predicava avevo sentito dirgli che era giusto pagare i tributi a Roma, avevo riferito al Prefetto, appena tre giorni prima, che Jesus era tutt’altro che un sovversivo pericoloso.
Certamente è impossibile enumerare quanti uomini ho ucciso in battaglia e quanti ladri, assassini, sicari, traditori, rivoltosi ho visto processare e giustiziare senza provare nessuna pietà perché se lo meritavano. Invece questo non meritava di morire. Non era né un ladro, né un ribelle, né un assassino. Anche Pilatus fece del tutto per salvarlo ma dovette condannarlo per motivi politici.
Infatti Pilatus, con la sua esperienza, capì subito che quell’uomo era innocente e lo disse alla folla. A questo punto i notabili giudei fecero subentrare la politica. Sapevano che a Pilatus non poteva interessare l’accusa di essersi dichiarato figlio del loro dio ed allora chiesero che venisse condannato perché si era dichiarato loro re. Minacciarono di far sapere a Roma che sulla Giudea si tollerava un’autorità diversa dall’ imperatore.
Sicuramente Pilatus non avrebbe temuto il ricatto se a Roma ci fosse stato ancora l’imperatore Augustus che non avrebbe mai sfiduciato non solo un suo prefetto ma nemmeno l’ultimo dei suoi legionari difronte alle accuse di un nemico. Ma Augustus, il grande imperatore che ho servito da giovane, è morto e l’attuale imperatore è in ferie a Capreae.
Il processo continuò. Rimasi sorpreso dal fatto che quel falegname rispondesse a Pilatus nella nostra lingua. Comunque non fece niente per salvarsi. Sarebbe bastato che avesse detto al prefetto: “Sono innocente. Non sono veri i fatti di cui mi accusano”.
Infine Pilatus, come ultimo tentativo, si rivolse alla folla invitandola a decidere se volessero liberare Jesus o Barabba. Tutti gridarono “Barabba”.
Allora i legionari si voltarono verso di me. Infatti Barabba, in un vile agguato, al comando di numerosi ribelli Zeloti, aveva ucciso il più giovane dei miei ed era riuscito a sfuggirmi .Non sapevo che ora stesse in prigione e che fosse stato condannato per chissà quali altri crimini. Perciò, non appena fu slegato, feci un cenno ad un legionario che si allontanò dallo schieramento. Tornò dopo breve tempo e con uno sguardo mi fece capire che il commilitone ucciso era stato vendicato.”
Labicanus, a questo punto, interruppe il racconto, gettò altra legna sul fuoco e sorseggiò un po’ di vino.
“Cosa successe dopo?” gli chiese il figlio incuriosito da quel racconto.
“Jesus fu condannato alla crocifissione e Pilatus comandò a me di far eseguire la sentenza dicendomi sottovoce che si trattava di una questione delicata, che c’era pericolo di sommossa e che quindi si fidava solo di me.
Scelsi quattro legionari ai quali comandai di tenere la folla a debita distanza. Vedendo quello che capitava a chi si avvicinava troppo capirono subito tutti che dovevano tenersi a debita distanza. Ci affidarono anche altri due condannati e non appena il banditore portò le iscrizioni con le motivazioni delle condanne ci dirigemmo verso il consueto luogo delle esecuzioni.
Quando le croci furono innalzate, una donna si avvicinò a quella di Jesus. Per un attimo si volse verso di me e dai suoi occhi traspariva un immenso dolore . Un legionario afferrò per un braccio quella donna al fine di allontanarla. “Lasciala stare, gli dissi, è sua madre”.
Poi scoppiò un improvviso temporale .Come se non bastasse ci fu anche una fortissima scossa di terremoto. La folla che fino ad allora aveva gridato incitata dai soliti notabili ebbe paura e fortunatamente corse verso la città e disperdendosi facilitò il nostro compito. Ai legionari che volevano fuggire ordinai di stare fermi perché il posto più sicuro era proprio quello dove eravamo .
Mentre ritornavamo pensavo come, a volte, una giornata qualsiasi in cui non prevedi particolari impegni iniziata tranquillamente, può riservare problemi che non avresti mai immaginato di affrontare. Preferisco quei giorni in cui, appena svegliato, già sai che devi affrontare una battaglia . Inoltre, arrivati alla fortezza, il legionario incaricato di assicurarsi dell’avvenuta morte dei condannati colpendoli con la lancia, mi disse che l’indomani avrebbe lasciato la vita militare.
Comunque anche quel giorno passò e, fortunatamente, per tutta l’estate non ho dovuto affrontare altre situazioni difficili”.
“E non ci sono stati più scontri tra i seguaci del condannato ed i notabili giudei ?” gli chiese il figlio.
” Affatto. Come avevo sempre sostenuto i seguaci di Jesus non si dimostrarono pericolosi. Poiché non si erano più visti, avevo pensato che quelli del posto, Giudei, si fossero nascosti e quelli che erano venuti dalla Galilea se ne fossero andati. Invece ne ho incontrati alcuni durante il viaggio di ritorno a Roma.”
“Che dici? Ne hai incontrati ed eri solo ? E ti hanno riconosciuto?” esclamò preoccupato il figlio.
“Calmati. Se sto qui significa che non mi successo niente. E poi credi che avrei avuto paura di affrontare da solo cinque o sei nemici ?
Come ti stavo raccontando, alla fine del primo giorno di viaggio verso Caesarea, mi sono fermato in una taberna per cenare e dormire. Mi ero appena seduto ad un tavolo quando ho visto entrare sei giudei o forse galilei che si dirigevano verso di me. Immediatamente mi sono alzato ed ho impugnato la daga. “Fermati centurione. Veniamo in pace. Possiamo sedere al tuo tavolo?” disse il più anziano.
“Cosa volete? Siete seguaci del predicatore che è stato crocefisso? Se vi scoprono rischiate di fare la stessa fine.”
Prima confabularono nella loro lingua, poi uno di essi si rivolse a me ed iniziò a parlarmi nella nostra lingua.”
“A proposito” disse Labicanus al figlio interrompendo il racconto “io col tempo ho imparato soltanto qualche parola, quelle più comuni, della lingua del posto e conosco un po’ il greco. Vorrei sapere come pescatori, contadini e falegnami facessero ad esprimersi così bene nella nostra lingua”
“A differenza di te avranno studiato. Non divagare e continua il racconto. Che ti disse il giudeo o galileo?”
Iniziò dicendomi. “Maria, la madre di Jesus ci ha pregato di aspettarti qui per salutarti prima che partissi per Roma e di offrirti la cena.”
“Salutare me che ho avuto l’incarico di far eseguire la sentenza di condanna a morte del figlio? .Forse è ancora stravolta dal dolore!”
“Al contrario. Ora è felice perché sa che suo figlio è vivo.”
“Crede che suo figlio sia vivo?. Sono contento. Voi lasciateglielo credere almeno non soffre”
“Anche noi sappiamo che è vivo. Il figlio di Dio non può morire”
“A me ormai queste vostre questioni non interessano più perché ho lasciato la legione e torno a Roma da semplice cittadino, però vi consiglio di non parlare in pubblico di certi argomenti altrimenti farete la stessa fine di Jesus”.
Iniziammo a cenare. Mi offrirono anche del vino.
“Devi sapere che tutto quello che è accaduto era già scritto ma ognuno, come sempre, è lasciato libero di scegliere il modo di affrontare gli eventi secondo la propria coscienza. Tu sei stato incaricato di far eseguire la sentenza di condanna a morte perché così era scritto, ma non eri obbligato ad ordinare a quel cireneo di aiutare Jesus a portare la croce, non eri obbligato a permettere a Maria di stare vicina al figlio, non eri obbligato a comandare al tuo legionario di dare un po’ di posca al crocifisso che aveva sete e non eri obbligato a fare in modo che il tuo mantello, con l’aiuto del vento, coprisse il viso a Maria nel momento in cui il legionario colpì con la lancia Jesus. Ecco perché Maria ci ha mandato a salutarti”
Il vino che mi avevano offerto era così buono che, durante la cena, mentre quel galileo parlava, ne bevvi molto, anzi troppo. Per questo, il mattino seguente, mi svegliai con il sole già alto e quando arrivai a Caesarea la nave, che non arrivò mai a Roma, per mia fortuna, era già partita. Ora dormiamo, domani all’alba ritorneremo al nostro villaggio.
Il giorno seguente Amata chiese ad Augustus se avesse passato una interessante giornata col padre. Con entusiasmo le descrisse tutto il tragitto che avevano fatto per salire sul monte dei loro antenati, le riferì del cinghiale ucciso e dei fatti che il padre gli aveva narrato durante la cena.
Amata, con l’intuito di donna, dedusse che quella nuova dea sconosciuta di nome Maria aveva voluto salvare la vita del marito. Quindi chiamò Labicanus e gli disse ” Desidererei che domani mi accompagnassi sulla cima del monte perché vorrei offrire in sacrificio latte, miele e frutta ad una nuova dea”. Labicanus le promise che l’avrebbe accompagnata volentieri. Subito dopo chiamò un servo e lo incaricò di recarsi con discrezione presso le abitazioni dei suoi amici per avvertirli che la gita a Roma, programmata per il giorno seguente, era rimandata.
Amata si fece accompagnare fino al punto più alto del monte e sul grande masso quadrangolare sistemò le offerte del sacrificio. Labicanus scese nello stesso posto dove due giorni prima si era accampato con il figlio ed attese la moglie. Poco dopo lo raggiunse Amata che guardando giù verso Roma disse: “Sento che questa nuova dea di nome Maria è diversa dalle altre .Fa soltanto del bene ai mortali. Sono sicura che moltissimi templi saranno eretti a Roma in suo onore e forse, un giorno, anche su questo monte sorgerà un tempio dedicato a lei. Speriamo che protegga sempre la nostra famiglia”
Il vento, lassù, era diventato freddo. Labicanus si tolse il mantello e lo sistemò sulle spalle di Amata, l’aiutò a salire sul cavallo e le disse: “Ora torniamo a casa”.
Anni dopo, Augustus, che si era recato al mercato nella vicina Roma, sentì un predicatore che parlava alla folla e ripensando al racconto del padre, capì che era un seguace di Jesus. Aspettò che questi terminasse e che la folla si fosse dispersa poi si avvicinò e gli chiese se avesse notizie della madre di Jesus, Maria, la dea che invocava sempre sua madre. Il predicatore che sapeva come iniziare a far comprendere ad un pagano quello che andava insegnando gli disse:” Maria ora sta in Paradiso con suo figlio. Il Paradiso è come l’Olimpo. Ma, mentre nell’Olimpo possono entrare soltanto gli Dei, nel Paradiso entrano anche gli uomini. Naturalmente entrano i seguaci di Jesus . Però anche moltissimi altri entrano soltanto perché Maria chiede a Jesus di farli entrare. Ed il figlio non sa mai dire di no a sua madre.”
Il predicatore si allontanò prima che Augustus potesse raccontargli la storia di suo padre.
Qualche secolo dopo quei fatti, popoli barbari si accorsero che non esistevano più legionari e centurioni come Labicanus e quindi iniziarono a saccheggiare l’impero arrivando fino a Roma e dintorni. Labicum Quintanensis non sfuggì a tale sorte e gli abitanti per sentirsi al sicuro risalirono sul monte dei loro antenati e si rifugiarono dentro alte mura che costruirono sulle vecchie rovine nella la parte più alta. Memori della storia tramandata dai loro padri, chiamarono quella città col nome, ormai volgarizzato, di Castrum Montis Compatris.
Oggi, dopo circa duemila anni, una torre delle vecchie mura ed un grande tempio dedicato a Maria sovrastano l’abitato. Nelle strade si sente parlare un dialetto molto simile alla lingua di quei tempi. Nello stesso posto dove era solito fermarsi Labicanus ora c’è una piccola piazzetta da dove, come allora, la sera si può ammirare tutta la grandezza di Roma illuminata dal sole che tramonta, d’inverno dietro i boschi e d’estate dentro il mare.

Ruggero Tomai

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