La Vocazione di San Matteo
Difficilmente realismo e pittura sacra si sono mai sposati con risultati tanto perfetti come ne “La Vocazione di San Matteo” dipinta dal Caravaggio. Una tela piena di straordinarie innovazioni che però non mancò, a fine ‘500, di suggerire malumori e sconcerti: come poteva, un’opera destinata ad essere esposta in chiesa, alla vista dei fedeli, ambientare la chiamata all’apostolato di Matteo in una taverna di infimo ordine? Perché raffigurare Matteo assieme a un baro e a un vecchio avido? La risposta è semplice: per Caravaggio non c’è più spazio per i tradizionali simbolismi religiosi. L’aspetto divino viene “normalizzato”, purgato di tutti gli orpelli mistici e extra terreni. Tutto si muove secondo una sola parola d’ordine: realismo. Questo è l’obiettivo, scelta consapevole e coraggiosa, della pittura dell’artista. Così ecco che Levi, avido esattore delle tasse, viene raffigurato in compagnia dei suoi simili: la sua mano, intenta a contare il denaro, sfiora quella del giovane seduto sulla sedia. L’esito delle due esistenze, così vicine attorno al medesimo tavolo, sarà però diversissimo: Levi infatti, illuminato dalla Grazia divina, (simbolizzata dalla luce che, allegoricamente, proviene da dietro le spalle di Cristo) risponderà alla chiamata del Signore con il nome di Matteo, che secondo l’etimologia ebraica significa “dono di Dio”.
Curioso notare come il binomio luce-ombra, grande protagonista di tutta la carriera pittorica e vero e proprio segno di riconoscimento della pittura del Caravaggio, sia presente in un sodalizio meraviglioso fin da questa opera che rappresenta la prima commissione pubblica ricevuta dal pittore.
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