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La vicenda di Mohammad, uomo di pace perseguitato in Iran

Aprile 05
14:38 2010

Una vicenda umana emblematica e silenziosa. La storia di un uomo di pace, ingegnere nucleare dissidente, perseguitato dall’intelligence iraniana. “Finalmente il mio incubo è finito,” afferma oggi il rifugiato, “grazie agli attivisti del Gruppo EveryOne, all’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani e all’Alto Commissario ONU per i Rifugiati. Sono stato trasferito in Francia, dove attendo l’asilo politico”.

Ginevra, 5 aprile 2010. Mohammad, trentaquattro anni, è iraniano, originario di Teheran. La sua storia, di cui si occupa il Gruppo EveryOne fin dalla fuga dell’uomo in Turchia, è uno dei casi più importanti ed emblematici nell’àmbito delle istanze di asilo da parte di profughi provenienti da Paesi dove i Diritti Umani sono in crisi. Ingegnere chimico laureatosi all’Università di Teheran, Mohammad si è specializzato in ingegneria atomica e nella costruzione di reattori nucleari. Assunto dall’Atomic Energy Organization of Iran, ha operato per svariato tempo al servizio del Governo, e negli ultimi anni, in particolare con l’ascesa al potere di Mahmud Ahmadinejad nel 2005, è stato direttamente coinvolto nel programma nucleare governativo iraniano, in particolare nella sperimentazione dell’arricchimento dell’uranio.

 

Tra la fine del 2004 e i primi mesi del 2005, Mohammad ha cominciato a nutrire seri dubbi sulle operazioni – di segretezza nazionale – che venivano commissionate all’Atomic Energy Organization, al punto di voler denunciare pubblicamente quanto stava avvenendo, ossia una sperimentazione nucleare che avrebbe potuto incidere negativamente sulla salute dei cittadini, ma anche sulla loro condizione economica e sociale. Dopo aver manifestato la volontà di allontanarsi dall’organizzazione, dedicandosi ad altro, i vertici gli hanno proposto una promozione, che lo avrebbe portato alla dirigenza della divisione tecnica. Mohammad ha però rifiutato, affermando di non condividere più i programmi , la politica e le sperimentazioni portate avanti dal Governo in carica.

 

Nel 2005, una mattina, mentre si recava al lavoro, è stato affiancato da un auto, da cui sono scese due persone, identificatesi solo successivamente come membri dell’intelligence iraniana (l’Islamic Revolution Guards Corp), che puntandogli una pistola gli hanno intimato di salire nella loro auto. “Sono stato caricato in macchina e portato agli uffici dei servizi segreti, che sembravano una casa qualunque affacciata su una strada di periferia.

Ero terrorizzato,” ha raccontato Mohammad a Matteo Pegoraro, attivista del Gruppo EveryOne, l’organizzazione internazionale per i Diritti Umani con cui è entrato in contatto alcuni mesi fa, “perché a casa mia moglie era incinta di nostro figlio e io non ero lì con lei, e forse non sarei mai più tornato. Rimasi due mesi in quel luogo, in isolamento in una cella di 1 metro per 2. Non c’era né luce né ventilazione; mi consentivano di fare un bagno di cinque minuti ogni 3-4 giorni. Gli interrogatori erano terrificanti: a turno, quattro diversi agenti mi prelevavano dalla stanza dove abitualmente ero relegato, mi bendavano e mi trascinavano in uno stanzino angusto, mi facevano sedere in una sedia gelida, rivolto al muro. Dietro di me, l’agente mi umiliava, insultava me, mia moglie, la mia famiglia; talvolta mi picchiava.

 

Due mesi dopo” ha raccontato ancora Mohammad, “sono stato trasferito nel carcere di Bushehr: eravamo in 17 persone in una cella di 4 metri per 3: le condizioni igienico-sanitarie erano pessime, e anche lì stavamo al buio, senza ricambio d’aria, se non per mezz’ora scarsa al giorno, quando ci veniva consentito di uscire. Lì, oltre agli agenti dell’intelligence, vi erano gli informatori, e anche loro ci interrogavano, minacciandoci di condannarci a morte se non avessimo collaborato”. Un mese dopo Mohammad era di nuovo libero, ma al suo ritorno a casa la moglie, minacciata e terrorizzata psicologicamente dalle autorità iraniane mentre il marito era in carcere, gli aveva annunciato di aver perso il loro bambino: il troppo stress psico-fisico, i serrati interrogatori e le continue violenze psicologiche le avevano provocato un aborto spontaneo. Pochi mesi dopo, arrivava il divorzio: “l’anno costretta a chiedere il divorzio, altrimenti sarebbero proseguite le minacce e la persecuzione, e io in nemmeno un anno avevo perso per sempre mia moglie, mio figlio e il mio lavoro” ha spiegato ancora a Pegoraro.

 

A maggio del 2006 Mohammad viene convocato dall’Islamic Revolution Court, un tribunale di fatto illegale poiché non concede alcuna garanzia di difesa agli imputati. Viene accusato dal giudice di spionaggio e di cospirazione contro il regime, ma, nonostante l’assenza del suo avvocato – minacciato dalle guardie la notte prima del processo -, riesce a ottenere un rinvio. A gennaio del 2009 viene nuovamente arrestato e condotto nel carcere di Evin a Teheran. Dopo alcuni mesi di detenzione, tramite il suo avvocato riesce a ottenere una sospensione temporanea della pena per gravi cause di salute, che lo hanno ridotto fisicamente e psicologicamente debolissimo. Nel frattempo, il padre di Mohammad riesce a procurargli il passaporto, corrompendo un funzionario del dipartimento di sicurezza membro dell’esercito Basij, e grazie all’aiuto di un amico che lavora all’ufficio passaporti di Teheran. Via terra raggiunge il confine, sottoposto a minori controlli, e approda così ad Ankara, in Turchia.

 

E’ il 25 ottobre 2009. Qui si reca, il 2 novembre scorso, all’ufficio di Ankara dell’Alto Commissario ONU per i Rifugiati per un colloquio in cui esporre il suo caso. “A questo punto, a dicembre scorso, Mohammad ha contattato il Gruppo EveryOne,” racconta Matteo Pegoraro. “Aiutatemi, vi prego, qui in Turchia mi sento braccato, ricevo telefonate di minaccia nel cuore della notte da persone che si qualificano come membri dei servizi segreti iraniani. Mi uccideranno, se rimango qui. Non vivo più, e non ho alcuna notizia sul mio procedimento legale per la richiesta di asilo” ha scritto Mohammad a EveryOne. “Ci siamo subito attivati, raccogliendo la documentazione in possesso a Mohammad e trasmettendola nell’immediato agli uffici di Roma dell’Alto Commissario per i Rifugiati delle Nazioni Unite” racconta Pegoraro.

 

“Elena Behr e Paolo Artini, funzionari ONU a Roma, si sono messi in contatto con gli uffici di Ankara, sollecitando su nostra richiesta di anticipare l’intervista con il consulente legale delle Nazioni Unite che Mohammad avrebbe dovuto sostenere il 22 aprile 2010. Contemporaneamente” prosegue l’attivista del Gruppo, “abbiamo allertato l’ufficio di Antonio Guterres, Alto Commissario per i Rifugiati, e di Navi Pillay, Alto Commissario per i Diritti Umani, chiedendo un immediato intervento in seguito all’intensificarsi delle minacce telefoniche ricevute ad Ankara da Mohammad e alle sue sensazioni di essere pedinato”.

Intervento che ha avuto luogo con tempestività, dopo che gli uffici dei Commissari delle Nazioni Unite, in base al dossier loro inviato dal Gruppo EveryOne, hanno verificato la gravità della condizione di profugo e di ricercato politico in cui versava Mohammad. “Cari amici di EveryOne,” ha scritto l’ingegnere nucleare in una lettera indirizzata all’organizzazione umanitaria, “vi sarò grato per sempre per ciò che avete fatto per me. Appena due mesi fa ero ad Ankara e ora, da marzo, sono finalmente in Francia: l’Alto Commissario ONU per i Rifugiati ha richiesto la mia estradizione e il governo francese ha accettato di accogliermi come rifugiato. Ora, seppure esausto, sono pieno di speranza e attendo fiducioso l’espletamento delle pratiche per il mio asilo. Spero di poter diventare un membro del vostro Gruppo, per supportare persone come me, o altri profughi, o ancora gli omosessuali perseguitati in patria, o altre minoranze: in fondo, la libertà è un diritto fondamentale e inviolabile di ogni essere umano”.

 

Quella di Mohammad, che è ora un attivista di EveryOne, è una storia silenziosa, come ce ne sono tante, tantissime, ogni giorno: in Italia e nel mondo. Compito di EveryOne è darle voce, affinché la fiamma che alimenta i diritti umani non si affievolisca mai. “Ringraziamo ancora una volta le Nazioni Unite per il loro pronto intervento in un caso drammatico,” hanno scritto i co-presidenti del Gruppo EveryOne ai Commissari, “intervento che ha scongiurato il rischio di gravi azioni da parte dell’intelligence iraniana contro un uomo di pace, profugo, dissidente, fautore della libertà di coscienza e impegnato per evitare i pericoli insiti nel nucleare bellico. Senza il prezioso lavoro degli Alti Commissari oggi non vi sarebbero speranze di libertà per esseri umani come Mohammad e le nostre società di uomini, che sono purtroppo ancora lontane dal riconoscimento globale dell’importanza dei Diritti Umani, sarebbero assai più vicina al baratro che divide il progresso civile dalla barbarie “.

 

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