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La vera morte di Pasolini è la morte della verità

La vera morte di Pasolini è la morte della verità
Agosto 16
13:45 2012

pppasoliniLa mattina del 2 novembre 1975 ero a Milano, dove recitavo al Teatro San Babila in Piccola città. La mattina mi svegliavo tardi, come fanno tutti gli attori di teatro, e andavo a leggere il giornale vicino al teatro, al bar in piazza San Babila, che allora era considerata quartier generale dei gruppi di estrema destra. La notizia mi colse come un pugno in faccia. Avevano ucciso Pier Paolo Pasolini. Un “ragazzo di vita” , Pino Pelosi detto la Rana, aveva ucciso Pasolini alla fine di un rapporto omosessuale finito tragicamente, e lo aveva abbandonato nel fango di un prato alla periferia di Roma, dopo essergli passato sopra con l’auto nella fuga. Gli elementi che emergevano dalle indagini erano talmente maledettamente pasoliniani da far credere ad una beffarda sceneggiatura scritta come epitaffio dal destino per un grande intellettuale, un grande poeta, un grande uomo.

Nella poesia Una disperata vitalità così Pasolini aveva descritto quella zona di Fiumicino dove avrebbe trovato la sua fine dopo qualche tempo: «…il vecchio castello, e una prima idea vera della morte…» Ma subito cominciarono ad emergere particolari che non quadravano con la ricostruzione fatta dagli inquirenti: impronte sconosciute, indumenti non riconducibili ad alcuno, dinamiche del delitto assolutamente oscure. Si cominciò a parlare di complici, di terze persone presenti sulla scena del delitto, di vendette trasversali per sgarbi fatti a qualcuno di assai potente, di implicazioni politiche nell’omicidio, di mandanti e di esecutori, si mormorarono nomi eccellenti, si tirò in ballo il suo romanzo incompiuto Petrolio, e il furto di alcune rare copie di un suo film. Ma il Pelosi fin da subito si addossò tutta ed interamente la responsabilità del delitto, escludendo la presenza di altre persone quella notte all’Idroscalo di Ostia. Il processo vide emergere parecchie lacune, parecchi dubbi, parecchie incongruenze, ma alla fine l’autoaccusa del Pelosi fece premio su tutte le possibili alternative circa il movente e gli esecutori del delitto, Pino la Rana fu condannato per omicidio volontario in concorso con sconosciuti, ed in appello fu poi stralciato il concorso poiché ad avviso della Corte mancavano le prove che il delitto fosse stato commesso in concorso con altri. Pelosi si prese nove anni e sette mesi di prigione e sparì nelle patrie galere portandosi dietro le sue opinabili verità. Ma le polemiche sulla sentenza furono mantenute vive per l’impegno di alcuni amici di Pasolini – Citti, Moravia e Laura Betti – che continuarono a gridare alto e forte che Pasolini era stato ucciso da più di una persona per motivi diversi da quelli sessuali, e ne pubblicarono le prove nel libro Pasolini, cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, con cui arrivarono a denunciare pubblicamente la Magistratura per la scandalosa conduzione del processo. Passarono molti anni, Pelosi uscì e rientrò più volte in prigione secondo il copione pasoliniano della sua vita, una vita di emarginazione sottoproletaria. Poi però nel 2005 decise di dare un’intervista a Franca Leosini su RAI 3 in cui, con una drammatica confessione, raccontò come erano andati realmente i fatti. Nella sua versione, lui si era appartato con Pasolini in macchina all’idroscalo. Poi, dopo un rapporto sessuale, era uscito dall’auto per andare ad orinare poco distante. Lì era stato aggredito da un uomo che lo aveva malmenato e costretto all’impotenza, mentre altri due uomini tiravano fuori Pasolini dall’auto e cominciavano a pestarlo fino a ridurlo in fin di vita. Poi gli aggressori minacciarono di morte lui e la sua famiglia se avesse parlato, e Pelosi in stato confusionale era risalito sull’auto di Pasolini e nella fuga aveva investito il corpo sdraiato nel fango. Passarono altri anni, e nel 2011 Pelosi pubblica un libro Io so… come hanno ucciso Pasolini, in cui replica la ricostruzione dei fatti già data a RAI 3, che per altro dà spiegazioni plausibili alle incongruenze verificate in sede processuale. Nel frattempo un’indagine di “Chi l’ha visto” del 2010 scopre un testimone che afferma che un tale Antonio Pinna, legato agli ambienti criminali della Magliana e noto per essere un abile pilota d’auto a disposizione della malavita, il giorno dopo l’assassinio di Pasolini portò la sua auto, ammaccata e sporca di fango e di sangue, da un meccanico amico per farla riparare. Il Pinna scomparve misteriosamente dopo qualche mese nel 1976, a pochi giorni dall’apertura del processo sulla morte di Pasolini. Aveva 33 anni, moglie due figli, e l’unica cosa di lui che venne ritrovata fu la sua auto abbandonata nel parcheggio dell’aeroporto di Fiumicino. Quando si aprì il primo processo, il Pelosi ricusò il suo avvocato d’ufficio, e nominò l’avvocato Rocco Mangia, noto penalista spesso impegnato a difendere elementi dell’estrema destra, al quale si affiancò come perito il criminologo Aldo Semerari, animatore del movimento Ordine Nuovo, in contatto con ambienti della Camorra e della Magliana e più volte inquisito per fatti legati al terrorismo nero, che sparì e venne misteriosamente ritrovato decapitato qualche anno dopo, nel 1982. A Roma nel 2011 durante la presentazione del libro Nessuna pietà per Pasolini nella libreria Mondadori, il Pelosi si presenta inaspettatamente e risponde a molte domande dei presenti, tra cui Walter Veltroni. Alla domanda di Veltroni su chi e perché avesse scelto l’avvocato Mangia come difensore, Pelosi, risponde «non è stata un’idea mia» e lascia intendere che il legale gli venne affiancato per tenerlo sotto controllo nelle sue dichiarazioni processuali. E alla successiva domanda se potessero essere ancora vivi alcuni di coloro che minacciarono di morte lui e la sua famiglia qualora avesse parlato e fatto nomi, Pelosi risponde reticente «….ni.» Sono passati trentasette anni da quella notte di passione. Nel fiume di sangue impunito che attraversa la storia dell’Italia, trascinando cadaveri insepolti attraverso i decenni, e facendoli riemergere ogni tanto quando un mulinello di speranza di giustizia li sospinge in superficie, il corpo di Pier Paolo Pasolini urla ancora che a spegnere il suo spirito furono certamente quei delinquenti che lo massacrarono senza pietà, ma ancor di più furono coloro che uccisero quella verità e quella giustizia per cui Pasolini spese la sua vita preziosa.

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