La valigia di cartone – Quando a Ciampino non c’erano i vecchi
(tratto e rivisto da ‘L’erba sotto l’asfalto’ Edizioni Controluce 2007).
Mi sono fatta coraggio e ho chiesto a una persona cara di bruciare la valigia di cartone. Aveva quasi settant’anni. Le cerniere arrugginite e sbilenche non tenevano più e la carta all’interno era tutta scollata e accartocciata. Dentro c’erano tante cose, preziose e inutili. Non si può portare tutto dietro durante la faticosa traversata che è la vita. Quando i passi si fanno più pesanti ci si deve un poco alleggerire del bagaglio. Stavolta è toccato alla valigia. Quella valigia l’ho avuto sempre sotto gli occhi. Stava sull’armadio nella stanza dei miei genitori e la sera prima di addormentarmi, nel lettino accanto al loro, restavo a lungo a guardarla.
Dentro c’erano le pere a maturare fra la paglia e qualcuna durava fino a Natale. Già allora la valigia mi parlava di viaggi. E sentivo l’odore e lo sferragliare del treno, lanciato in mezzo alla campagna fiorita. Quella valigia mi parlava di partenze per luoghi ignoti e di ritorni familiari. L’ho vista sempre lì su quell’armadio, che ora ha in custodia mio fratello Augusto. Quell’armadio ha più anni della valigia, ma vivrà più a lungo. Come può un mobile accompagnare i suoi proprietari in tutte le loro peripezie, lasciarsi smontare e rimontare a ogni spostamento senza cedere mai in nessuna parte? Era di legno buono e fatto bene, e mia madre lo lucidava ogni giorno. La valigia è bruciata in un attimo, tirava tramontana. Ho assistito da lontano alla fiammata. Qui nel bosco dove vivo vi sono sempre fuochi accesi, è così che si ripuliscono i terreni dalla sterpaglia, anche se c’è una legge incongrua che lo vieta e che nessuno rispetta. Ora che la valigia è bruciata la vorrei indietro. Con la sua maniglia scorticata e le sue cinghie logore. Col suo odore di fibra e di pere. Poi penso che la valigia è qui, in tutti i miei sensi e ancora mi racconta viaggi. Mi parla di distanze che tali non sono. Di fiori azzurri scompigliati dal vento. Un piccolo atto di abbandono, il rogo della valigia, che si può compiere solo quando tutto è in salvo, nella valigia che noi stessi siamo. Una valigia di memorie. Ancora mi chiedo qualche volta perché mio padre scelse Ciampino per spostarsi dal suo paese. Tutto intorno a Roma, poteva scegliere; agglomerati di case destinati a diventare borgate sorgevano ovunque nella pianura circostante, perché mio padre scelse Ciampino? Facile la risposta: mio padre lavorava a poca distanza da quello che all’epoca era il sogno di una cittadina progettata col criterio dell’ordine e della bellezza, con la ferrovia, l’aeroporto e tante strade che portavano a Roma. Roma era New York, per chi veniva dalle montagne. Che cosa apparve agli occhi di mio padre quando s’innamorò di Ciampino? Una chiesa nuova e bella, un collegio che sembrava una reggia, una piazza rotonda e strade alberate, lo scenario dei Castelli e tanta terra da edificare e da coltivare. Mio padre vide questo e lo descrisse a mia madre. Mia madre vide per la prima volta Ciampino quando venne ad abitarvi. Il racconto di mio padre le era piaciuto: parlava di pianure, di acqua abbondante, di terra fertile, di possibilità di lavoro. Parlava di villini con giardino e del Sacro Cuore. A Subiaco la cattedrale di Sant’Andrea domina il paese, col fiume che viene chiacchierando giù da Vallepietra e lambisce le mura formidabili e secolari. La storia di Subiaco è antica, con i suoi monasteri e i resti delle ville romane, con i fasti di un impero e di un clero, e la povertà inconsapevole della gente semplice del luogo.
Che cosa vide mia madre quando venne per la prima volta a Ciampino? Ciò che mio padre le aveva descritto: un paese tutto il contrario di Subiaco.
E i miei fratelli, Giacomo di dieci anni e Augusto di sette anni, che videro arrivando a Ciampino? Lo posso immaginare. Videro una spianata che si prestava a giochi diversi da quelli che facevano in paese. Niente vicoli e scalinate, niente sponde di fiume, niente porte aperte e vecchi seduti sui gradini.
A Ciampino i vecchi non c’erano nel ’39, quando arrivò la mia famiglia, lo capisco in un baleno. I vecchi restavano al paese lagnandosi dei figli che abbandonavano loro e i pochi averi. Chi partiva faceva un torto a chi restava e doveva sopportarne le conseguenze. Quando mia madre tornò sfollata al paese, dopo il bombardamento del 19 luglio 1943 che ridusse Ciampino a una maceria, non ottenne asilo dalla sua famiglia. Le dissero che chi abbandona il proprio luogo, non ha diritto a tornarvi. Ospitale fu la terra e la casetta di tufi in campagna. Non credo che in quella circostanza i miei si siano portati dietro la valigia, scappavano per salvarsi la pelle e solo quello contava. Ma la ritrovarono al suo posto, sull’armadio, coperta di calcinacci caduti dal soffitto che però in quel lato della casa non era crollato, pronta a ricevere le migliori pere spadone della stagione.
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